Maestrale di marzo
Maestrale di marzo
Non è strano in natura inseminarsi al vento,
come i fiori.
Fiore è il nome del sesso delle vergini,
chi lo coglie, sfiora.
Miriàm/Maria fu incinta di un angelo in
avvento
a porte spalancate, a mezzogiorno.
Il vento si avvitò al suo fianco
sciogliendo la cintura lasciò seme nel grembo.
Fu salita senza scostare l’orlo del vestito.
Al primo raccolto del grano contava tre mesi
dal maestrale di marzo che le baciò il respiro
facendola matrice di un figlio di dicembre,
che è luna di kislev * per lei Miriàm/Maria
ebrea di Galilea.
* Kislev:Mese lunare ebraico tra novembre e dicembre
tratto da: “In nome della madre” Erri de Luca, Feltrinelli, 2006
Coperta da un vento…
“La voce del messaggero era arrivata insieme a un colpo d’aria. Mi ero alzata per chiudere le imposte e appena in piedi sono stata coperta da un vento, da una polvere celeste, da chiudere gli occhi. Il vento di marzo in Galilea viene da nord, dai monti del Libano e dal Golan. Porta bel tempo, fa sbattere le porte e gonfia la stuoia degli ingressi, che sembra incinta. In braccio a quel vento la voce e la figura di un uomo stavano davanti a me.”
tratto da:”In nome della madre” ,E. De Luca, Feltrinelli
Alma Mater neolitica Cuccuru Sardegna
tratto da: “Arte e religione della Sardegna prenuragica” Lilliu Giovanni, Carlo Delfino editore, 1999
Giovanni Lilliu
Il funzionalismo di Bronisław Malinowski
La crisi nella quale cadde l’antropologia inglese all’indomani del declinare del pensiero positivista terminò anche grazie alla nascita di un nuovo paradigma, in grado di teorizzare una nuova modalità conoscitiva nei riguardi delle società umane: il funzionalismo di Bronislaw Malinowski (1884-1942). L’anno della pubblicazione di Argonauts of western pacific (1922) rappresenta un punto di rottura rispetto al passato, e sancisce la nascita di un nuovo modo di concepire l’antropologia. L’importanza dell’opera di Malinowski sta nell’aver considerato la ricerca sul campo come un momento fondamentale per quanto riguarda la raccolta dei dati etnografici, e nell’aver creato un nuovo metodo di analisi per la lettura scientifica delle società esotiche. L’osservazione partecipante, ossia il rapporto di profonda partecipazione alla vita comunitaria della società che si aveva intenzione di studiare, diverrà untopos imprescindibile all’idea stessa di fare antropologia. Se fino ad allora gli studiosi che si erano occupati di popolazioni “primitive” lo avevano fatto basandosi esclusivamente su dati di seconda e terza mano, da Malinowski in poi la parte riguardante la ricerca sul campo verrà pensata come momento indispensabile ad una successiva analisi dei dati raccolti. Malinowski, in effetti, fu, prima che un grande teorico, un grandissimo etnografo; la sua capacità di entrare in simbiosi con la gente da lui visitata, attraverso la partecipazione diretta della cultura altrui, rappresenterà un definitivo passo in avanti delle scienze antropologiche.Argonauti del pacifico occidentale è il libro più importante di Malinowski, all’interno del quale vengono posti in essere tutti i principi teorici del suo funzionalismo. Il nocciolo centrale del libro è rappresentato da una specifica forma di scambio, chiamato Kula, che vige presso alcuni gruppi abitanti piccole isolette al largo del continente australiano, l’arcipelago delle Trobriand. All’interno di questo complesso sistema vengono scambiati due tipi di oggetti, che circolano in direzioni tra loro opposte; la prima serie di oggetti, ossia collane di conchiglie rosse (Soulava), circola sempre in senso orario, mentre la seconda serie, composta da braccialetti di conchiglie bianche (Mwali), circola solamente in senso anti-orario, cosicché lo scambio può avvenire solo tra oggetti diversi, braccialetti al posto di collane e viceversa. L’importanza che il Kula assumeva per le popolazioni coinvolte, tanto da essere definita da Malinowski come la pratica più importante nella vita dei tobriandesi, dipendeva, a livello sociologico, dal suo essere in grado di mantenere saldi i rapporti tra gruppi diversi e di crearne di nuovi, in una accezione aggregante e coesiva. Inoltre, ogni fase della preparazione del Kula, dalla costruzione delle imbarcazioni agli scambi veri e propri, sottintendeva lo svolgersi di una gran quantità di fenomeni sociali e di un altrettanto elevato numero di pratiche a sfondo magico. L’integrazione, cosi come l’interdipendenza delle varie pratiche sociali connesse al Kula, formeranno le basi concettuali per poter pensare alla società come un insieme di elementi interrelatifunzionalmente tra di loro, al fine di permettere il funzionamento stesso del sistema. Lo studio dei rapporti esistenti nello scambio del Kula, fece nascere l’ormai famosissimo concetto di reciprocità, secondo cui tutte le varie pratiche connesse al Kula erano regolate da un principio universale, finalizzato a garantire coesione tra i membri. La caratteristica costante della vita di un indigeno, diventava, alla luce di questo principio, regolata da una serie di norme e doveri, riguardanti comportamenti di mutua assistenza, di prestazioni e controprestazioni, dall’usanza di offrire doni e riceverne a propria volta, in un continuo flusso di rapporti interpersonali ed intertribali. L’agire sociale veniva a configurarsi, per Malinowski, come un insieme di comportamenti finalizzati a garantire ordine e coesione all’interno di un gruppo, oltrechè rappresentare la base del diritto vigente presso le società “primitive”. All’interno della società, vista da Malinowski come un sistema complesso di fenomeni tra loro correlati, la famiglia elementare, ossia il gruppo composto da madre, padre e figli, assumeva un ruolo decisivo per quanto riguardava il funzionamento stesso del gruppo. In essa, infatti, scrive Malinowski, avviene sia la riproduzione biologica che sociale, intesa come momento di trasmissione della cultura tra generazioni successive, finendo per rappresentare l’istituto culturale fondamentale alla continuazione della società. L’intero campo del sociale diventava una semplice estensione dei rapporti esistenti in famiglia, mentre l’esogamia quella della proibizione dell’incesto, la cui istituzionalizzazione avrebbe messo a repentaglio le fondamenta del gruppo. L’idea di società che Malinowski aveva teorizzato sin dalle sue prime ricerche presso i tobriandesi, tenderà a modificarsi negli ultimi anni della sua vita, quando subentrerà una teoria a sfondo biologista, all’interno della quale la società verrà pensata come un sistema funzionale ai bisogni fondamentali dell’uomo. La società, che Malinowski continuerà sempre a considerare come un insieme di fenomeni funzionali al mantenimento dell’equilibrio interno, e retta dal principio di reciprocità, tenderà a configurarsi, negli scritti apparsi postumi, come una semplice macchina in grado di creare risposte adeguate ai problemi legati all’esistenza stessa dell’uomo, come la riproduzione, il nutrimento, la socialità, il sesso. Tali risposte culturali, chiamate bisogni primari, erano suscettibili di creare, a loro volta, nuovi bisogni, in un’accezione deterministica e comportamentistica, basata su di un sistema meccanico di stimolo-risposta. La magia, ad esempio, era, per Malinowski, un sostegno emotivo nei riguardi di situazioni non controllabili tecnicamente. Cosi teorizzata, la magia finiva per l’assumere le caratteristiche di semplice strumento utilizzabile nei momenti in cui, pur con tutte le cautele conosciute, ci si trovava di fronte ad una situazione nei cui confronti si era inermi. Come scrisse lui stesso “La funzione della magia è quella di ritualizzare l’ottimismo“.
tratto da:http://digilander.libero.it/antropogica/funzionalismo.htm
Bronisław Malinowski
Bronisław Malinowski (Cracovia, 7 aprile 1884 – New Haven, 16 maggio 1942) è stato un antropologo polacco, naturalizzatobritannico e considerato universalmente come uno dei più importanti studiosi del XX secolo. È celebre per la sua attività pionieristica nel campo della ricerca etnografica, per gli studi sulla reciprocità e per le acute analisi sugli usi e costumi delle popolazioni della Melanesia. Malinowski è considerato il padre della moderna etnografia, di cui ha rivoluzionato la metodologia e l’approccio pratico. È stato, insieme ad Alfred Radcliffe-Brown, il maggiore esponente del funzionalismo britannico. Questa particolare scuola di pensiero è caratterizzata da una particolare attenzione all’analisi dei fattori che contribuiscono al mantenimento dell’equilibrio interno di una società, che appunto la teoria funzionalista concepisce come un organismo al cui funzionamento contribuiscono le sue varie parti. Questa visione del sistema sociale come una sorta di organismo vivente prevale soprattutto in Radcliffe-Brown (che la riprese dalle tesi di Emile Durkheim, il padre del funzionalismo in sociologia), il cui approccio è appunto definito antropologia sociale proprio per l’importanza centrale attribuita alla società. Diverso è l’approccio di Malinowski, il quale pur mantenendo una visione funzionalista pone al centro dei suoi studi l’individuo e non la società. Malinowski teorizza la sua nozione di cultura nel saggio postumo Una teoria scientifica della cultura (1944), anche se le conclusioni erano già presenti in nuce nella sua ricerca sul campo nelle Trobriand. Egli riprende l’interpretazione tyloriana della cultura come insieme complesso, ma ne accentua l’aspetto organicistico trasformandola in un “tutto integrato” in cui ogni singola parte contribuisce al funzionamento dell’insieme. Malinowski ritiene che ogni cultura sia costituita dall’insieme di risposte che la società dà ai bisogni universali degli esseri umani. Tali bisogni sono di due tipi: alla base vi sono i bisogni umani universali (basic needs), come il mangiare, il dormire, il riprodursi e a cui ogni cultura fornisce proprie peculiari risposte; la soddisfazione dei bisogni primari crea quindi bisogni secondari o derivati come l’organizzazione politica ed economica che nascono dalla necessità di ogni società di mantenere la propria coesione interna. C’è infine un terzo tipo di bisogni, bisogni di carattere culturale, come le credenze, le tradizioni, il linguaggio. A tutti questi livelli di necessità umane, ogni cultura dà risposte coerenti alla propria natura. Su queste premesse, come ha notato James Clifford, Malinowski ha potuto basarsi sull’analisi di un singolo aspetto della cultura di un popolo per capire l’insieme complesso di cui questo aspetto è parte. L’approccio di Malinowski rende quindi possibile giungere al tutto attraverso una o più delle sue parti. La figura retorica della sineddocheè perfettamente in grado di spiegare questo approccio: la parte è concepita infatti come una “versione in scala” o come una “cifra analogica” del tutto.
tratto da Wikipedia
La Dea Madre nuragica
“Nel dibattito fra magia e religione per lungo tempo il termine magia ha connotato in modo negativo o comunque riduttivo – in opposizione a quelle religiose – pratiche e credenze di società semplici, dove non esistono praticamente, se non su un piano embrionale, delle gerarchizzazioni sociali, e quindi sono assenti anche i livelli religiosi diversificati (giacché i livelli religiosi si hanno dove esistono livelli sociali, cioè dislivelli). Pregiudizi di tipo confessionale ponevano, ad esempio, la religione cristiana come perfetto modello di riferimento, e questo portava a definire magia un insieme di credenze privo di scrittura, di testi sacri e di quella complessità e articolazione teologica, rituale e organizzativa, che caratterizza le religioni “evolute”, come appunto lo stesso cristianesimo. Evoluzionismo e scientismo hanno poi considerato magia e religione come due momenti distinti dell’evoluzione umana (Tylor, Frazer), per cui i “primitivi”, ancora fermi allo stadio preistorico, non avrebbero oltrepassato la tappa della magia non avendo partecipato al processo evolutivo che porta fino alla scienza come momento ultimo di realizzazione umana. Ma va detto che nello stesso positivismo evoluzionistico, anche la religione poteva diventare “superstizione” e quindi ostacolo al “progresso”. Tuttavia, già a partire dal funzionalismo di Malinowski religione e magia sono visti non più come tappe evolutive della storia umana o come residui e sopravvivenze di un lontano passato ma come espressioni coesistenti nelle diverse società, accomunate dal fatto di essere risposte a momenti di difficoltà, quando le forze umane non aiutate non possono da sole risolvere certi problemi. Si differenzierebbero solo per il fatto che la magia si porrebbe l’obiettivo di risolvere problemi materiali, immediati, concreti e di corto respiro, mentre la religione interverrebbe per affrontare le crisi che nascono da disagi esistenziali di tipo prevalentemente metafisico. Un’accurata analisi dei passaggi più importanti di questa polemica che oppone la magia ora alla religione ora alla scienza, si trova in E. de Martino (Magia e scienza, 1962) che riconosce come l’utilizzazione del termine magia per definire certe pratiche e certe credenze in termini dispregiativi abbia una matrice storica e vada perciò usata criticamente, non come se magia e religione costituissero due mondi autonomi, del tutto diversi e perfettamente distinguibili. Il termine magia si configura allora come una categoria elaborata da chi detiene il potere culturale e religioso per definire le espressioni connesse al sacro di chi quel potere non detiene. D’altra parte, pratiche e credenze dei popoli “primitivi” sono tradizionalmente trasmessi e condivisi da tutti i componenti del gruppo, godono di un prestigio, di una autorevolezza e di un credito sociale riconosciuti e indiscussi. Sotto quest’aspetto, presentano quindi quei caratteri simili all’ufficialità e alla istituzionalità che contraddistinguono le religioni delle società complesse, seppure con diverso grado di articolazione del sistema sacerdotale e organizzativo e con diverso grado di complessità di apparati simbolici e ideologici. In questa prospettiva, nel volume del Lilliu il sentimento religioso delle comunità preistoriche della Sardegna emerge persuasivo e stimolante soprattutto nel capitolo dedicato agli idoletti rinvenuti nell’Isola. Si tratta di 133 statuine, di varia tipologia, materia (pietra, osso, argilla) e cronologia …. Dai dati emerge che queste figurine della Sardegna preistorica sono in netta prevalenza femminili (94,7%) e che sono in gran parte di sicura destinazione funeraria o comunque legata alla sfera del sacro. Ne consegue quindi che anche in Sardegna, in sintonia con quanto avviene nell’Europa e nel Vicino Oriente, è attestato in modo inequivocabile un culto della Dea Madre, di antichissima tradizione europea ed orientale che, come è noto, affonda le sue radici fin nel Paleolitico. La Grande Madre rappresenta una divinità primordiale, genitrice e nutrice, la sola a detenere il segreto della vita e l’unica con il potere di trasmetterla, a sua discrezione, agli altri esseri umani, agli animali, alla terra, alle piante. Nelle culture preistoriche, quando forse non era ancora ben chiaro il nesso fra concepimento e nascita, la capacità di dare vita ad ogni singolo individuo e la stessa sopravvivenza del genere umano sembravano dipendere esclusivamente dalla donna che rivelava, in modo concreto, di avere in sé un’energia vitale che l’uomo sembrava non possedere. Infatti, solo la donna partoriva e generava apparentemente dal nulla, per partenogenesi, mentre il maschio, che non poteva provare in modo palese il proprio ruolo nel concepimento, pareva sterile ed era escluso da questo universo divino. La nuova vita cresceva nel grembo della donna e vedeva per la prima volta la luce ancora ricoperto del sangue della nascita. E solo la donna poteva nutrire questa nuova vita con il latte del suo seno, assumendo poi nuovamente forme di fanciulla in una continua trasformazione di sé. La Dea Madre poteva inoltre alleviare l’evento traumatico della morte ed assicurare la vita oltre la morte, in una rielaborazione ciclica della nascita come modello culturale e simbolico di rinascita. Il defunto doveva essere sepolto nel ventre della madre terra o in una grotta, e sul suo corpo veniva poi sparsa ocra rossa – il sangue della vita – per evocare la prima immagine che aveva dato di sé nel venire alla luce e di conseguenza per assicurargli quasi specularmente, mediante l’uso rituale del sangue o di un suo sostituto simbolico, la rinascita nell’aldilà. È in un quadro ideologico di vita e di morte come questo che ben si comprendono e trovano preciso significato i rituali funerari attestati nella necropoli di Cuccuru s’Arriu, del Neolitico Medio di Bonuighinu. I defunti, in tombe a fossa o in grotticella artificiale, erano deposti in posizione rannicchiata, quasi nel grembo materno, velati di ocra rossa e con accanto il corredo per il viatico e una statuina in pietra che rappresentava l’immagine rassicurante della Dea Madre, intesa come tramite fra l’uomo e la divinità, fra ciò che è mortale e ciò che rappresenta l’immortalità. Tuttavia, anche la Grande Madre, divinità strettamente legata alle comunità agricole, sarà sostituita nel tempo da figure maschili che meglio rappresentavano la funzione maschile in mutate strutture socio-economiche. In termini storici, tale mutamento può essere spiegato con l’imporsi, a partire dall’età dei metalli, di una economia più dinamica e articolata, di nuove esigenze di difesa determinate da conflittualità diffuse ove la forza virile finiva per essere determinante per la salvezza del gruppo sociale. La Grande Dea viene quindi ridimensionata nel suo ruolo e, agli albori del mito, uno dei modi per ridurre la sua autorità è stato quello di farla diventare figlia di un dio padre, moglie di un dio marito, sorella di un dio fratello, madre di un figlio dio e maschio, che appena nato diveniva più importante di lei. In Sardegna, l’insorgere di una figura divina al maschile quale partner della Dea è già attestato nel pieno fiorire del culto della Gran Madre – nella cultura di Ozieri – per la presenza di menhir e di simboli taurini/bovini raffigurati in numerose domus de janas, ceramiche, amuleti. Ma sarà soprattutto nell’Età del Rame che questa nuova società “al maschile”, irrequieta e guerriera, lascerà testimonianza del mutato sentimento religioso soprattutto nelle minacciose statue-menhir armate di pugnale che segnano luoghi sacri e ambiti funerari. Ma se le statuine femminili e le stele figurate rappresentano la religione della Grande Madre, segni di una energia primordiale che regola l’alterna vicenda della vita e della morte, certamente legati ad elementi di pura irrazionalità magica e di superstizione, nel senso sopra indicato di una risposta immediata all’insorgere di un evento negativo, sono invece da considerare gli amuleti fallici per allontanare il malocchio – proprio come nel nostro tempo! – così come quegli oggetti che avevano in sé, nella forma, nel colore o nella materia, virtù di magia difensiva. Ed ecco collane costituite da denti umani o di animali (volpe, cervo, etc.), o pendagli ricavati da zanne di cinghiale nei quali è sottesa la forza scaramantica del corno ricurvo, oppure ancora vaghi di collana in conchiglia (simbolo di fertilità), etc.”
tratto da: Prefazione di Alberto Moravetti al testo Arte e religione della Sardegna prenuragica” Lilliu Giovanni, Carlo Delfino editore, 1999
Santuari Mariani
” Quando venuto meno un certo sistema politico, entrati in crisi il papato e gli ordini mendicanti , non pochi fedeli ebbero la sensazione che il mondo fosse rimasto vuoto di Dio e preda indifesa del male imperante. Allora dilagò un culto antico, quello della Madonna, vista come personificazione della Chiesa, nel suo aspetto santo e non compromesso con il secolo”
tratto da: “Tra santi e santuari” Cracco riportato in “Il santuario del monte della Madonna nei colli euganei “, Callisto Carpanese, Abbazia di Praglia
Hei-Ho!
Il Fronte di Liberazione Nani da Giardino è un movimento di ispirazione goliardica che ha lo scopo di liberare i nani da giardino. Secondo gli aderenti, i nani, essendo completamente indifesi, sono preda di malvagie persone che li imprigionano nei loro giardini; essendo creature nate nei boschi, soffrono enormemente nel dover vivere intrappolati nei giardini, costretti a sorridere. Lo scopo del movimento è quello di liberare i nani riportandoli nel loro habitat naturale. La tradizione vuole che i nani ricambino la ritrovata gioia portando fortuna al loro liberatore.
La gioia dei nani
Vorrei poter essere distesa in un prato pieno di margheritine come questo. Nascondermi piccola come Alice quando mangiò il biscotto magico. Essere alta come questi nani che se ridono felici di questi tempi in cui sembra che la fiducia e il buon umore siano scomparsi. Eppure occorre trovare ad ogni istante la gioia di ricominciare, il desiderio di stupirsi, di scherzare con il mondo. Ci sono giorni che i regali arrivano inaspettati, piccoli minuti, preziosi, impensati. Basta aprirsi a noi stessi, avere il coraggio di persistere nell’innocenza.
Plotino
Plotino, nato a Licopodi in Egitto, è da considerare l’ultimo grande pensatore greco. Dopo di lui il Cristianesimo comincia a permeare il mondo con la sua teologia dando inizio al medioevo. Plotino studia filosofia ad Alessandria presso la scuola neoplatonica di Ammonio Sacca. Successivamente, per meglio approfondire la conoscenza delle filosofie orientali, segue le legioni romane in una spedizione in Persia. Stabilitosi a Roma e fondata una sua scuola, riscosse grande successo e celebrità. Si narra che persino l’Imperatore e sua moglie assistessero alle sue lezioni. Ebbe quindi la possibilità di fondare in Campania una città governata dai filosofi, il cui nome doveva essere Platonopoli, ma il tentativo fallì. I testi principali che fanno da riferimento alla sua filosofia sono le Enneadi, la raccolta dei suoi insegnamenti eseguita dal discepolo Porfirio. Plotino, come molti altri, non lasciò nulla di scritto
1. L’Uno
Si è già visto come tutta la filosofia nel corso della sua storia cerchi di trovare una spiegazione a due verità che sembrano apparentemente inconciliabili: l’evidenza del molteplice che si riscontra nel mondo sensibile, e l’altrettanto evidente unità dell’ente dal quale tutto deve scaturire se non si vuole ammettere la possibilità del nulla. Plotino elabora una filosofia che abbraccia in modo deciso la seconda tesi: ogni cosa esistente è creata da un Uno, da un ente infinito e assoluto (per cui in esso si possono riscontrare le stesse caratteristiche dell’essere parmenideo, anche se Plotino pone l’Uno anche al di là dell’essere stesso: l’Uno è ciò in cui tutte le cose sono, nella loro contraddizione, unite, similmente al concetto di coincidenza degli opposti). L’Uno richiama l’antica unione del Tutto, l’Uno è indefinibile (se fosse definibile sarebbe definito e particolare, quindi non sarebbe assoluto), per questo egli si trova aldilà della comprensione umana. Il mondo degli uomini è molteplice, soggettivo, mutevole, l’Uno è unico, immutabile, necessario. E’ questa una visione altamente trascendentale del principio unico che crea ogni cosa, per cui acquista tratti fortemente neoplatonici. L’Uno, contenendo tutto ciò che va aldilà dell’esperienza umana, si trova oltre il linguaggio e la ragione, per cui non è definibile. Tale forma di neoplatonismo si avvicina molto al proto-cristianesimo, tuttavia la filosofia di Plotino si distingue per l’attributo assolutamente trascendentale del principio divino, per cui l’Uno, diversamente dal Dio antropomorfo dei cristiani, non ha in sé alcuna caratteristica umana. Altra importante distinzione è quella che vede l’Uno emanare il mondo in modo necessario e non volontario. L’Uno acquista nella filosofia di Plotino, come in tutto il neoplatonismo, caratteri divini, tuttavia è da notare che L’Uno è solo la definizione che Plotino dà del principio del Tutto in contrapposizione alla molteplicità delle cose esistenti. Plotino non intende affermare che l’Uno è la sola divinità esistente, ma è comunque la più alta: Plotino non esclude il politeismo attraverso i successivi processi di ipostasi. Tuttavia se, in quanto unità, l’Uno è privo di qualsiasi molteplicità, in quanto invece infinita energia produttrice esso non manca di nulla, non ha bisogno di alcunché di tutto ciò che da esso proviene, perché tutto è originariamente in lui nella forma dell’unità suprema (E. Severino, La filosofia antica)
2. Le ipòstasi:
l’Uno non produce il mondo ma lo emana. Una delle principali differenze tra l’Uno plotiniano e il concetto di Dio cristiano è che l’Uno non produce il mondo volontariamente, ma necessariamente. L’Uno non crea il mondo arbitrariamente, decidendo con coscienza di crearlo (come accade al Dio cristiano che ha creato il mondo con un preciso atto di volontà), l’Uno vede semplicemente il mondo crearsi attorno a sé: il mondo sgorga dall’Uno come l’acqua dalla fonte, come il calore emana dal fuoco. La perfezione dell’Uno è tale che trabocca, la sua entità assoluta non è limitabile, quindi esce, si emana e crea, per ipòstasi, successivi livelli di realtà. Le Ipòstasi (letteralmente ciò che sta sotto, fondamento) sono quei successivi livelli di realtà creati dall’Uno nel processo della sua emanazione.Visto che l’Uno è l’unica entità assoluta, i sottostanti livelli di ipòstasi sono sempre più imperfetti mano a mano che ci si allontana dalla sua perfezione. Esiste quindi una gerarchia delle ipòstasi:
1. Al vertice del processo si trova l’Uno, dal quale tutto proviene, nell’Uno viè la massima perfezione possibile
2. Dall’Uno sgorga l ‘Essere
3. Dalla contemplazione che l’Essere volge a sestesso sgorga lo Spirito (l’intelletto, il nous), ovvero l’essere divino che ha come contenuto il proprio pensiero
4. Infine l’Anima, il principio che dà la vita e che crea le cose materiali come coscienza del sensibile
Si può notare come tutte le ipòstasi abbiano per contenuto la medesima ‘essenza‘: non vi è separazione tra le ipòstasi, poiché l’emanazione che deriva dall’Uno è continua (come il calore che viene dal fuoco, seppur attenuato mano a mano che ci si allontana dalla fonte, è sempre quel certo calore che appartiene a quella medesima fonte). L’Anima, ultima ipòstasi, si muove. Ella può elevarsi verso lo Spirito dell’Essere e dell’Uno, o precipitare nella materia: l’Anima può intuire l’Uno elevandosi, mentre un po’ di quella stessa anima che a sua volta proviene dall’Uno, si trova nella materia (nell’uomo, come nelle piante, come nella roccia, in un ordine decrescente di consapevolezza).
3. La materia, pura apparenza sensibile
La materia, secondo la filosofia di Plotino, non è nemmeno un’ipòstasi, ma appartiene gerarchicamente all’Anima, che la produce. La materia quindi è pura apparenza prodotta dall’Anima, la quale crea la sensibilità, ovvero la percezione. La materia, essendo l’ultimo livello possibile nel quale s imanifesta l’emanazione dell’Uno (il lembo estremo di tale emanazione), non ha la forza per creare da sé le cose: essa ha in sé la forza vitale e creatrice dell’Anima, ma il movimento delle cose, il loro crearsi, il loro mutare, il loro distruggersi, rimane solamente un’apparenza, per cui la materia si configura come puro ricettacolo di forze, come movimento illusorio che viene a crearsi in modo solido solo nella percezione umana.
4. L’estasi: Il ritorno dell’uomo all’Uno
In che modo l’uomo può venire a contatto con l’Uno del quale è parte? Plotino afferma che l’uomo può, attraverso la sua anima, ripercorrere all’inverso il cammino delle ipòstasti e ritornare alla coscienza dell’Uno, attraverso un percorso spirituale interiore. Se infatti ogni cosa è emanata dall’Uno, ogni cosa è l’Uno, seppur con una densità minore. L’Anima, ultima ipòstasi, si trova presente in ogni uomo. Ogni uomo ha in sé la sua particolare anima, ma questa anima particolare viene emanata pur sempre dall’Anima che crea il mondo.
Questa emanazione continua che non ha intervalli (come già scritto), permette all’uomo di avere l’Uno in sé. Ma quali sono i modi e gli atteggiamenti pratici che l’uomo deve assumere per tornare a percepire l’Uno dentro di sé? Le tappe di questo percorso sono:
1. Il rispetto dei doveri sociali, i quali abituano l’uomo alla disciplina
2. La contemplazione della bellezza e dell’arte
3. L’amore
4. L’amore per la sapienza e la filosofia
5. Il superamento di ogni realtà materiale attraverso l’estasi
Si nota come ogni tappa sia gerarchicamente subordinata in importanza alle altre, similmente al processo delle ipòstasi. In particolare la bellezza (l’arte e la musica) ha la proprietà di trasmettere l’idea dell’Uno al mondo della materia e quindi agli uomini. La contemplazione della bellezza, il provare l’amore e la passione per la filosofia, producono nell’uomo una tensione alla bellezza assoluta che purifica l’anima degli uomini e li avvicina all’Uno.
La suprema purificazione dell’anima sopraggiunge con l’estasi, ovvero il definitivo abbandono dell’oggettività dell’esistenza in favore di una coscienza spirituale totalmente immersa nell’Uno.
L’estasi è un processo assolutamente personale, ovvero l’uomo non ha bisogno di alcuna guida spirituale, concetto che esclude l’intervento di ogni apparato religioso temporale (come, ad esempio, i ministri della chiesa e la chiesa stessa) nelle questioni che riguardano la spiritualità dei singoli.
Ancora sulla Ragione…
“Si può conoscere l’Infinito solo con una facoltà superiore alla ragione, entrando in uno stato in cui il sé finito non esiste più, in cui l’essenza divina ci viene comunicata. Questa è l’estasi. E’ la liberazione della mente dalla sua consapevolezza finita. Il simile può conoscere solo il simile; nel momento in cui si cessa di essere finiti, si diventa Uno con l’Infinito. Nella riduzione della tua anima al suo sé più semplice , la sua essenza divina, si realizza questa unione, questa identità.”
Plotino lettera a Flacco
La sostanza di Chi Siete
“Tutto è accettabile a giudizio di Dio, poichè come potrebbe Dio non accettare quello che esiste? Respingere una cosa significa negarne l’esistenza. Definirla sconveniente è come dire che non è una parte di Me, e ciò è impossibile. Eppure attenetevi alla vostre convinzioni, e restate fedeli ai vostri valori perchè sono i valori dei vostri genitori, come lo erano dei genitori dei vostri genitori; dei vostri amici e della vostra società. Costituiscono la struttura della vostra vita, e perderli significherebbe smembrare il tessuto della vostra esperienza. Comunque, esaminateli uno per uno. Passateli in rassegna pezzo per pezzo. Non demolite l’edificio, ma controllatelo mattone per mattone e sostituite quelli che risultano rotti, non più in grado di sopportare la struttura. Le vostre opinioni circa il giusto e l’errato sono soltanto questo: opinioni. Sono pensieri che costituiscono la forma e la sostanza di Chi Siete. Ci sarebbe soltanto una ragione per cambiare qualcuno di essi; soltanto uno scopo nell’effettuare un cambiamento: qualora non foste soddisfatti di Chi Siete.”
tratto da: “Conversazioni con Dio”, Neale Donald Walsch, Sperling & Kupfer Editori, 1995
Gotye – Somebody That I Used To Know (feat. Kimbra)
Somebody that I used to Know è il singolo del cantautore belga-australiano Gotye (nome d’arte di Wouter De Backer), la cui voce è stata paragonata a Peter Gabriel e Sting. Il singolo che ha spopolato nelle classifiche americane, fa parte dell’album Making Mirrors ed è realizzato con il featuring della cantante neo zelandese Kimbra (Kimbra Johnson).
Ogni tanto penso a quando stavamo insieme
Come quando hai detto di essere così felice che saresti potuta morire
Ho detto a me stesso che eri giusta per me
Ma mi sentivo così solo in tua compagnia
Ma quello era amore ed è un dolore che ricordo ancora
Si può diventare dipendenti da alcuni tipi di tristezza
Come la rassegnazione alla fine
Sempre alla fine
Perciò quando abbiamo capito che non avevamo un senso
Beh, hai detto che saremmo potuti essere ancora amici
Ma ammetterò che ero contento che fosse finita
Ma non dovevi tagliarmi fuori
Far finta che non fosse mai successo
E che non fossimo stati niente uno per l’altra
Non mi serve neppure il tuo amore
Ma tu mi tratti come un estraneo
E sembra così sgarbato
No, non dovevi abbassarti a tanto
Lasciare che i tuoi amici collezionino i tuoi messaggi
E poi cambiare numero
Credo di non aver bisogno di questo, anche se
Adesso sei solo qualcuno che un tempo conoscevo
Ogni tanto penso a tutte le volte che mi hai fregato
Ma mi hai fatto credere che era sempre qualcosa che avevo fatto io
Ma non voglio vivere in questo modo
Leggendo tra le righe di ogni parola che dici
Hai detto che avresti potuto lasciar perdere
E non ti avrei beccato attaccato a qualcuno che un tempo conoscevi
Ma non dovevi tagliarmi fuori
Far finta che non fosse mai successo
E che non fossimo stsati niente uno per l’altra
Non mi serve neppure il tuo amore
Ma tu mi tratti come un estraneo
E sembra così sgarbato
No, non dovevi abbassarti a tanto
Lasciare che i tuoi amici collezionino i tuoi messaggi
E poi cambiare numero
Credo di non aver bisogno di questo, anche se
Adesso sei solo qualcuno che un tempo conoscevo
Qualcuno
Un tempo conoscevo
Che un tempo conoscevo
Qualcuno.
La barriera del nostro intelletto
“Non ho infatti dimenticato come sia difficile superare la barriera del nostro intelletto, della logica e della razionalità. Della mancanza di fede. ….L’uomo deve gradualmente elevare i propri pensieri al di sopra di ciò che è terrestre e allora percepisce nella visione spirituale lontani orizzonti di grande, infinita bellezza dell’opera creata dal puro amore, meravigliosa nelle sua giustizia. L’universalità di questa opera non è afferrabile dalla mente umana senza la cooperazione della luce del suo essere spirituale. La sua esistenza si rivela però non nel processo del pensiero razionale, ma nell’atto dell‘amore incondizionato che abbraccia la totalità della creazione. Questo non si attinge per effetto della visione trasmessa mediante le parole da coloro che sono già coscienti della Verità, ma attraverso le proprie sofferenze che purificano l’essere spirituale dell’uomo dall’imperfezione del suo corpo materiale. Soltanto allora le parole della verità, possono trovare una reale risposta nella coscienza che diventerà, non riflesso, del materiale processo che nasce dalla natura umana, ma riflesso del pensiero spirituale del suo Spirito divino. La Parola Vivente nasce dallo Spirito e può essere compresa solamente dallo Spirito”
Tratto da : “Messaggi dalla sfera del silenzio”, di Alina Nowak , Hermes Edizioni
Schubert, “Incompiuta”, I tempo
Nell’Incompiuta si riverbera più che in ogni altra opera di Schubert la ricerca di senso della vita, che fecero del giovane musicista un autentico viandante (Der Wanderer) dal nome di un suo popolarissimo lied, i cui versi recitano: “Tra i singhiozzi mi chiedo sempre. Dove?…dove sei terra mia adorata?… Terra verde di speranza, terra dove fioriscono le mie rose, dove sono i miei amici, dove risorgeranno i miei morti, terra che parli la mia lingua, o terra dove sei? Vago silenzioso, infelice, tra i singhiozzi mi chiedo sempre: dove’? Il vento mi risponde: “La dove tu non sei, c’è la felicità”
tratto da: ” Schubert, l’anima che manca all’Europa”, Corriere della Sera, domenica 19.02.2012