Magnificat Luca primo capitolo
Magnificat *
anima mea Dominum,
et exultavit spiritus meus *
in Deo salutari meo
quia respexit humilitatem ancillae suae, *
ecce enim ex hoc beatam me dicent omnes generationes
quia fecit mihi magna, qui potens est: *
et Sanctum nomen eius
et misericordia eius a progenie in progenies *
timentibus eum.
Fecit potentiam in brachio suo, *
dispersit superbos mente cordis sui,
deposuit potentes de sede, *
et exaltavit humiles;
esurientes implevit bonis, *
et divites dimisit inanes.
Suscepit Israel, puerum suum, *
recordatus misericordiae suae,
sicut locutus est ad patres nostros, *
Abraham et semini eius in saecula.
Gloria Patri et Filio *
et Spiritui Sancto
sicut erat in principio et nunc et semper *
et in saecula saeculorum. Amen.
La vera chiave per la felicita’
“Una cosa ancora – disse Shin’ichi – non deve pensare che sposarsi la rendera’ automaticamente felice. Puo’ succedere che per qualche tempo, e’ vero, ma la vita e’ lunga e puo’ accadere di tutto. A volte il matrimonio e’ causa di in felicita’ e amarezza. Se un matrimonio e’ felice o no dipende solo dallo sforzo che entrambi i coniugi vi mettono. E il fatto che le circostanze – con il matrimonio- possano cambiare, non significa in alcun modo che il suo destino, il suo karma, sia cambiato. Non importa dove o con chi vive, se la malattia e’ nel suo destino, lei si ammalera’, se i problemi economici sono nel suo karma non potra’ fuggire. La cosa importante e’ comprendere come spezzare questo karma negativo . Lei deve sviluppare la forza vitale necessaria per superare serenamente qualsiasi difficolta’ possa manifestarsi. La fede e’ la fonte di quella forza. La vera chiave per la felicita’ e’ la fede”.
Tratto da:”La nuova rivoluzione umana” in “Karma” ed. Esperia marzo 2011
Lui è me stesso
” O Sole onnipresente,
figlio del Signore della creazione
comanda ai tuoi raggi,
ritrai la tua voce.
Togli il velo affinchè io possa vedere la sua faccia;
la sua faccia velata dal tuo disco d’Oro.
Perchè colui che è là,
quell’Essere, Lui,
è me stesso.”
tratto da: “Isho Upanishad”
QUELLO
“QUELLO e’ cio’ che non e’ nato e non muore; da nulla prodotto nulla si produce da esso. Non nato, eterno, per sempre esistente, primigenio. QUELLO non viene ucciso quando il corpo e’ ucciso. Se l’ uccisore pensa di uccidere e l’ucciso pensa di venire ucciso, entrambi si ingannano:quello non uccide e non e’ ucciso. Piu’ del piccolo, piu’ grande del grande, QUELLO dimora nel cuore di tutte le creature, ma soltanto chi e’ libero dai desideri e dal dolore lo vede. Immobile, percorre grandi distanze; giacendo, va ovunque; incorporeo nei corpi, immutabile nei cambiamenti. Come puo’ conoscerlo chi non e’ placato e calmo, e la cui mente non e’ a riposo? Come puo’ l’uomo qualunque concepire QUELLO di cui sacerdoti e guerrieri sono il cibo, e la morte il condimento?”
Tratto da:”Katha Upanishad”
Salmo 104
[1] Benedici il Signore, anima mia,
Signore, mio Dio, quanto sei grande!
Rivestito di maestà e di splendore,
[2] avvolto di luce come di un manto.
Tu stendi il cielo come una tenda,
[3] costruisci sulle acque la tua dimora,
fai delle nubi il tuo carro,
cammini sulle ali del vento;
[4] fai dei venti i tuoi messaggeri,
delle fiamme guizzanti i tuoi ministri.
[5] Hai fondato la terra sulle sue basi,
mai potrà vacillare.
[6] L’oceano l’avvolgeva come un manto,
le acque coprivano le montagne.
[7] Alla tua minaccia sono fuggite,
al fragore del tuo tuono hanno tremato.
[8] Emergono i monti, scendono le valli
al luogo che hai loro assegnato.
[9] Hai posto un limite alle acque: non lo passeranno,
non torneranno a coprire la terra.
[10] Fai scaturire le sorgenti nelle valli
e scorrono tra i monti;
[11] ne bevono tutte le bestie selvatiche
e gli ònagri estinguono la loro sete.
[12] Al di sopra dimorano gli uccelli del cielo,
cantano tra le fronde.
[13] Dalle tue alte dimore irrighi i monti,
con il frutto delle tue opere sazi la terra.
[14] Fai crescere il fieno per gli armenti
e l’erba al servizio dell’uomo,
perché tragga alimento dalla terra:
[15] il vino che allieta il cuore dell’uomo;
l’olio che fa brillare il suo volto
e il pane che sostiene il suo vigore.
[16] Si saziano gli alberi del Signore,
i cedri del Libano da lui piantati.
[17] Là gli uccelli fanno il loro nido
e la cicogna sui cipressi ha la sua casa.
[18] Per i camosci sono le alte montagne,
le rocce sono rifugio per gli iràci.
[19] Per segnare le stagioni hai fatto la luna
e il sole che conosce il suo tramonto.
[20] Stendi le tenebre e viene la notte
e vagano tutte le bestie della foresta;
[21] ruggiscono i leoncelli in cerca di preda
e chiedono a Dio il loro cibo.
[22] Sorge il sole, si ritirano
e si accovacciano nelle tane.
[23] Allora l’uomo esce al suo lavoro,
per la sua fatica fino a sera.
[24] Quanto sono grandi, Signore,
le tue opere!
Tutto hai fatto con saggezza,
la terra è piena delle tue creature.
[25] Ecco il mare spazioso e vasto:
lì guizzano senza numero
animali piccoli e grandi.
[26] Lo solcano le navi,
il Leviatàn che hai plasmato
perché in esso si diverta.
[27] Tutti da te aspettano
che tu dia loro il cibo in tempo opportuno.
[28] Tu lo provvedi, essi lo raccolgono,
tu apri la mano, si saziano di beni.
[29] Se nascondi il tuo volto, vengono meno,
togli loro il respiro, muoiono
e ritornano nella loro polvere.
[30] Mandi il tuo spirito, sono creati,
e rinnovi la faccia della terra.
[31] La gloria del Signore sia per sempre;
gioisca il Signore delle sue opere.
[32] Egli guarda la terra e la fa sussultare,
tocca i monti ed essi fumano.
[33] Voglio cantare al Signore finché ho vita,
cantare al mio Dio finché esisto.
[34] A lui sia gradito il mio canto;
la mia gioia è nel Signore.
[35] Scompaiano i peccatori dalla terra
e più non esistano gli empi.
Benedici il Signore, anima mia.
Danda est ellebori multo pars maxima avaris…
Il nome Elleboro deriva dal greco “Helleborus“, ovvero “nutrimento che uccide” in riferimento alla sua particolare velenosità, specialmente del rizoma e delle radici.
Nell’antichità si reputava che la sua radice fosse un rimedio contro la pazzia. Secondo il poeta Orazio non sarebbero bastati tutti gli ellebori che crescevano numerosi in Anticiria per curare un avaro.
La dose piú forte d’ellèboro
bisogna darla agli avari, e non so
se non sia logico somministrargli
soltanto Antícira .
Gli eredi di Staberio incisero sulla sua tomba
l’ammontare del patrimonio:
se non l’avessero fatto, avevano l’obbligo
di offrire al popolo
cento coppie di gladiatori,
un banchetto a discrezione di Arrio
e quanto frumento si miete in Africa .
‘Bene o male che abbia agito, non voglio prediche . ‘
E credo che in ciò, con la sua prudenza,
Staberio avesse visto giusto .
Cosa intendeva, insomma,
quando volle che gli eredi incidessero sul marmo
l’ammontare del patrimonio?
Finché visse considerò la povertà
un’imperdonabile colpa,
e da nient’altro si guardò con piú puntiglio,
tanto che se per caso fosse morto
meno ricco anche d’un solo centesimo,
gli sarebbe sembrato
d’essere un buono a nulla:
virtú, fama, onore, beni divini e umani,
tutto dipende dal luccichio del denaro:
e chi ne avrà accumulato di piú
sarà famoso, forte, giusto .
E sapiente? Anche, e re, ciò che vuole .
Tali ricchezze,
come se le avesse ottenute
per i suoi meriti,
sperò che fossero motivo di gran lode .
Ma lui cosa ebbe in comune
con il greco Aristippo,
che nel deserto libico ordinò ai servi
di gettare via l’oro,
perché impacciati dal peso andavano troppo lenti?
Chi dei due ti sembra piú matto?
Ma non serve a nulla un esempio
che per risolvere una questione ne pone un’altra .
Se uno comprasse cetre e compratele
le buttasse in un mucchio,
senza essere portato alla musica
o all’arte in generale,
se comprasse forme e trincetti
chi non è calzolaio,
o vele nautiche chi odia i traffici,
a buon diritto da tutti sarebbe detto
stravagante e insensato .
Che differenza c’è fra questi
e chi nasconde i suoi tesori,
senza godere di ciò che ha raccolto,
e ha paura di toccarli come fossero sacri?
Se, sdraiato accanto a un gran mucchio di frumento,
uno gli facesse la guardia notte e giorno
armato di bastone,
e avendo fame,
non osasse toccarne un chicco,
lui che è il padrone,
e preferisse per economia
nutrirsi d’insalata amara;
se, riposte in cantina mille botti
di chio e di vecchio falerno,
ma che dico, trecentomila,
lui bevesse vinagro;
di piú, se un vecchio di ottant’anni
dormisse sulla paglia,
mentre le coperte, banchetto di vermi e tignole
gli marciscono nelle casse;
niente di strano
che uno come questi sembri pazzo
a cosí poca gente,
visto che la maggior parte degli uomini
è tormentata dalla stessa malattia .
Tratto da: “Satire” Orazio, Libro II, satira 3
Christina Perri – A Thousand Years
Mille Anni
Il cuore batte forte
colori e promesse
come posso essere coraggiosa, come posso amare quando
ho paura di cadere?
Ma guardandoti lì da solo
tutti i miei dubbi improvvisamente se ne vanno in qualche modo
un passo più vicina
Sono morta ogni giorno aspettandoti
tesoro non avere paura, ti ho amato
per mille anni, ti amerò per altri mille
Il tempo resta immobile
la bellezza in tutto il suo splendore
non sarò coraggioso
non permmetterò che nulla mi porti via
ciò che ho di fronte
ogni respiro, ogni ora è arrivata qui
un passo più vicina
Sono morta ogni giorno aspettandoti
tesoro non avere paura, ti ho amato
per mille anni, ti amerò per altri mille
Ho sempre creduto che ti avrei trovato
il tempo ha portato il tuo cuore da me, ti ho amato
per mille anni, ti amerò per altri mille
Un passo più vicina, un passo più vicina
Sono morta ogni giorno aspettandoti
tesoro non avere paura, ti ho amato
per mille anni, ti amerò per altri mille
Ho sempre creduto che ti avrei trovato
il tempo ha portato il tuo cuore da me, ti ho amato
per mille anni, ti amerò per altri mille
“Correspondances”, Les Fleurs du Mal, Baudelaire
La Nature est un temple où de vivants piliers
Laissent parfois sortir de confuses paroles;
L’homme y passe à travers des forêts de symboles
Qui l’observent avec des regards familiers.
Comme de longs échos qui de loin se confondent
Dans une ténébreuse et profonde unité,
Vaste comme la nuit et comme la clarté,
Les parfums, les couleurs et les sons se répondent.
Il est des parfums frais comme des chairs d’enfants,
Doux comme les hautbois, verts comme les prairies,
– Et d’autres, corrompus, riches et triomphants,
Ayant l’expansion des choses infinies,
Comme l’ambre, le musc, le benjoin et l’encens,
Qui chantent les transports de l’esprit et des sens.
tratto da:”Correspondances”, Les Fleurs du Mal, Baudelaire
Ferita d’amore
Si agita ‹in› noi questo seme, di cui ho parlato prima,
appena l’adolescenza rafforza le membra.
Giacché diverse cause eccitano e provocano diversi oggetti:
dall’uomo, solo l’attrattiva dell’uomo fa scaturire il seme umano.
E appena questo, emesso dalle sue sedi, esce,
attraverso le membra e le giunture si ritira da tutto il corpo,
raccogliendosi in determinate regioni nervose,
e immediatamente eccita proprio gli organi genitali.
Le parti stimolate inturgidiscono di seme e nasce la voglia
di emetterlo là verso dove è protesa la furente brama,
e il corpo cerca quello da cui la mente è ferita d’amore.
Giacché tutti solitamente cadono sulla ferita, e il sangue
spiccia in quella direzione da cui è giunto il colpo
e, se il nemico è vicino, il rosso liquido lo copre.
Così, dunque, chi riceve i colpi dai dardi di Venere,
lo trafigga un fanciullo di membra femminee
o una donna che da tutto il corpo irraggi amore,
tende verso là donde è ferito, e anela a congiungersi,
e in quel corpo spandere l’umore tratto dal corpo.
Ché il muto desiderio presagisce il piacere.
Questa è Venere per noi; e di qui viene il nome di amore,
di qui quella goccia della dolcezza di Venere stillò
prima nel cuore, e le susseguì il gelido affanno.
Infatti, se è assente l’oggetto del tuo amore, son tuttavia presenti
le sue immagini, e il dolce nome non abbandona le tue orecchie.
Ma conviene fuggire quelle immagini e respingere via da sé
ciò che alimenta l’amore e volgere la mente ad altro oggetto
e spandere in altri corpi, quali che siano, l’umore raccolto,
e non trattenerlo essendo rivolto una volta per sempre all’amore
d’una persona sola, e così riservare a sé stesso affanno e sicuro
dolore. Giacché la piaga s’inacerbisce e incancrenisce, a nutrirla,
e di giorno in giorno la follia aumenta e la sofferenza s’aggrava,
se non scacci con nuove piaghe le prime ferite, e non le curi
vagando con Venere vagabonda mentre sono ancora fresche,
o trovi modo di rivolgere altrove i moti dell’animo.
Né dei frutti di Venere è privo colui che evita l’amore,
ma piuttosto coglie le gioie che sono senza pena.
Giacché certo agli assennati ne viene un piacere più puro
che ai malati d’amore. Infatti nel momento stesso del possedere
fluttua ed erra incerto l’ardore degli amanti, né sanno
che cosa debbano prima godere con gli occhi e le mani.
Quel che hanno desiderato, lo premono strettamente, e fanno
male al corpo, e spesso infiggono i denti nelle labbra,
e urtano bocca con bocca nei baci, perché non è puro il piacere
e assilli occulti li stimolano a ferire l’oggetto stesso,
quale che sia, da cui sorgono quei germi di furore.
Ma lievemente attenua le pene Venere nell’atto di amore
e il carezzevole piacere, commisto, raffrena i morsi.
Giacché in ciò è la speranza: che dallo stesso corpo
da cui è nato l’ardore, possa anche essere estinta la fiamma.
Ma la natura oppone che ciò avviene tutto al contrario;
e questa è l’unica cosa per cui, quanto più ne possediamo,
tanto più il petto riarde d’una crudele brama.
Difatti cibo e bevanda sono assorbiti dentro le membra;
e poiché possono occupare determinate parti,
perciò la sete e la fame si saziano facilmente.
Ma di una faccia umana e di un bel colorito nulla, di cui
si possa godere, penetra nel corpo, tranne tenui simulacri,
che spesso trascinano la mente con una misera speranza.
Come quando in sogno un assetato cerca di bere e non gli è data
bevanda che nelle membra possa estinguere l’arsura,
ma a simulacri di acque aspira e invano si travaglia
e in mezzo a un fiume impetuoso bevendo patisce la sete,
così in amore Venere con simulacri illude gli amanti,
né possono saziare i propri corpi contemplando corpi pur vicini,
né sono in grado di strappar via qualcosa dalle tenere membra
con le mani errando incerti su per tutto il corpo.
E quando, alfine, congiunte le membra, si godono il fiore
di giovinezza, quando il corpo già presagisce il piacere,
e Venere è sul punto di effondere il seme nel femmineo campo,
s’avvinghiano avidamente al corpo e mischiano le salive
bocca a bocca, e ansano, premendo coi denti le labbra;
ma invano; perché non possono strapparne nulla,
né penetrare e perdersi nell’altro corpo con tutto il corpo;
infatti sembra talora che vogliano farlo e che per questo lottino:
tanto ardentemente si tengono avvinti nelle strette di Venere,
finché le membra si sciolgono, sfinite dalla forza del piacere.
Infine, quando il desiderio costretto nei nervi ha trovato sfogo,
segue una piccola pausa dell’ardore violento, per poco.
Quindi torna la stessa rabbia, e di nuovo li invade quel furore,
quando essi stessi non sanno ciò che bramano ottenere,
né sono in grado di trovare che mezzo possa vincere quel male:
in tanta incertezza si consumano per una piaga nascosta.
Aggiungi che sciupano le forze e si struggono nel
travaglio; aggiungi che si trascorre la vita al cenno di un’altra
persona. Son trascurati i doveri, e ne soffre il buon nome e vacilla.
Frattanto il patrimonio si dilegua, e si converte in profumi
babilonesi, e bei sandali di Sicione ai piedi ridono,
s’intende, e grandi smeraldi con la verde luce
sono incastonati nell’oro, e la veste color di mare è consunta
assiduamente, e maltrattata beve il sudore di Venere;
e i beni ben guadagnati dai padri diventano bende, diademi,
talora si cangiano in un mantello femminile e in tessuti di Alinda e
di Ceo. S’apparecchiano conviti con splendide tovaglie e vivande,
giochi, coppe senza risparmio, unguenti, corone, serti,
ma invano, perché di mezzo alla fonte delle delizie
sorge qualcosa di amaro che pur tra i fiori angoscia,
o quando per caso l’animo conscio s’angustia per il rimorso
d’una vita trascorsa nell’inerzia e perduta nelle orge,
o perché lei ha lanciato, lasciandone in dubbio il senso, una parola,
che confitta nel cuore appassionato divampa come fuoco,
o perché gli sembra che troppo lei occhieggi o che il suo sguardo
sia attratto da un altro, e nel suo volto vede le tracce d’un sorriso.”
tratto da: “De rerum natura”, Lucrezio, 4, 1037-1287 (trad. F. Giancotti: da Lucrezio, La natura, introduzione, testo criticamente riveduto, trad. e commento di F. G., Garzanti, Milano 2000
immagine tratta da “La Folie Baudelaire” Roberto Calasso Adelphi edizioni
Peak Esperiences
Toward a Psychology of Being fu pubblicato da Abraham Maslow nel 1962. A differenza degli psicologi comportamentisti, che basavano i loro studi sugli animali, e dei freudiani, che si concentravano sulle persone malate, egli propone una visione dell’uomo fondata su ricerche condotte su soggetti sani. Maslow ritiene che “ciascuno di noi possiede una natura essenziale interiore”, intesa come insieme di inclinazioni e tendenze innate. Tali istinti sono però deboli e si lasciano soffocare facilmente dalla pressione culturale e dall’abitudine. Alcuni aspetti della natura interiore vengono perciò rimossi o dimenticati; ma essi permangono, sotterranei, a livello di inconscio. Se questo nucleo essenziale viene negato, la persona manifesta una malattia psicologica. Egli stima, ottimisticamente, che la natura intima dell’uomo non sia originariamente malvagia, ma buona o neutrale (pre-morale). Gli istinti aggressivi, nelle persone sane, sono solo una reazione ad una minaccia attuale. La nevrosi, al contrario, non fa parte del nucleo intimo, ma costituisce una difesa o un’evasione rispetto ad esso.
La conseguenza di tali premesse è che conviene incoraggiare il nucleo intimo degli individui, anziché reprimerlo: non si dà salute psicologica senza l’accettazione e l’espressione di esso. La capacità e gli organi, infatti, costituiscono anche dei bisogni: premono per funzionare (es. i muscoli, l’intelligenza, il senso musicale ecc.).
L’autore riprende la teoria della piramide dei bisogni, ma qui si concentra non tanto sui cosiddetti bisogni fondamentali (fisiologici, di sicurezza, di appartenenza e di stima), ma su ciò che sta oltre ed emerge, una volta che questi vengono appagati: l’auto-realizzazione, che è mossa da una motivazione diversa, non carenziale ma di accrescimento.
Maslow si concentra quindi sulle persone auto-realizzanti e cerca di definirne le peculiarità rispetto alle persone mosse da bisogni carenziali. Il loro modo di rapportarsi al mondo, di conoscere, di amare è differente: meno ego-centrato, più oggettivo, più creativo ecc. Si affidano di più a cognizioni intuitive ed estetiche, nella convinzione che il linguaggio e i concetti siano inadatti a esprimere la totalità del reale. Realizzano con maggiore frequenza le cosiddette peak experiences, quei momenti fondamentali dell’esperienza amorosa, mistica, naturalistica, estetica, intellettuale ecc, che rendono la vita degna di essere vissuta. Non che siano immuni dalla sofferenza: la maturità, anzi, è un passaggio dagli pseudo-problemi nevrotici ai problemi reali, inerenti alla condizione umana. Viene infine evidenziata una caratteristica paradossale: l’auto-realizzazione, che è una forma di autonomia, consente di trascendere il sé, di essere meno egoisti. ” L’essere umano entra nell’assoluto, diventa una cosa sola con esso, sia pure per un breve attimo. Quell’attimo trasforma la vita. Molti a questo proposito hanno detto che in quell’attimo lo spirito dell’essere umano si ferma e che, in quel momento senza tempo, gli si rivela la natura paradossale , mutevole e immutabile dell’universo”.
Tratto da Wikipedia e “Die Sehnsucht, ganz zu sein”, Marsha Sinetar