Porta di Ishtar
video tratto da:http://www.youtube.com/watch?v=u-MLj–4HXA
La Porta di Ishtar era in origine una delle otto porte monumentali (14 metri di altezza per 10 di larghezza) della parete interna di Babilonia. Fu costruita per onorare la dea omonima nel 575 a.C. da Nabucodonosor II sul lato nord della città. Si compone di migliaia di mattonelle smaltate da caratteristico colore ottenuto dai frammenti di lapislazzuli blu di cui il rivestimento dei mattoni è impastato. Ed è percorsa lungo tutto il suo perimetro da immagini di draghi, tori, leoni e creature mitologiche. I resti della porta originale sono stati scoperti a Babilonia tra il 1912 e il 1914 da un’equipe di archeologi tedeschi. La maggior parte dei reperti fu pertanto trasferita in Germania nel 1930. Qui al Pergamon Museum di Berlino è stata ricostruita interamente. Altri reperti sono conservati anche nei musei di Istanbul, New York, Detroit, Boston. In Babilonia ‘Porta di Dio’ troviamo la porta reale, quella di Ishtar. La porta attraversa, come il sangue un corpo vivo, il Viale delle Processioni. La porta azzura di Ishtar, entrata principale della citta’,presentava lo spettacolo impressionante della forza e della grandezza. Il tempio più importante era quello dedicato a Marduk e chiamato Esagil, che significa “tempio dall’alto tetto”;situato sulla sponda dell’Eufrate, constava di due parti principali: una più antica, con la Porta Santa e la torre, l’altra, più recente, che era il tempioEsagil stesso; era di pianta quadrata con la cella del dio (che conteneva la sua statua, seduta in trono, di certo simile a quella che si vede riprodotta in alcuni sigilli cilindrici, e inoltre, il letto, il carro, e la barca del dio). Come in genere tutti i templi mesopotamici, anche l’Esagil era ricco di cortili. La torre (ziqqurat) chiamata Etemenanki, che significa “casa del fondamento del cielo e della terra”, si ergeva su una base quadrata di 90 m di lato, e constava di 7 piani, per un’altezza totale di 90 m; il settimo piano era rivestito di mattoni smaltati in azzurro e portava un tempietto (gigunu). Altro tempio famoso era il bīt akītu edificato fuori della cinta di mura, al quale conduceva la strada processionale Aīburshābū che passava sotto la porta di Ishtar; ivi si svolgeva principalmente, ogni primavera, la festa del capodanno babilonese, l’akītu, che era la festa più importante dell’anno e durava dodici giorni. I palazzi più importanti erano il castello, il palazzo d’estate e il grande palazzo di Nabucodonosor II.
Lettura di oggi 20 marzo 2012
Dal libro del profeta Daniele
In quei giorni il re Nabucodònosor disse: «È vero, Sadrac, Mesac e Abdènego, che voi non servite i miei dèi e non adorate la statua d’oro che io ho fatto erigere? Ora se voi, quando udrete il suono del corno, del flauto, della cetra, dell’arpa, del salterio, della zampogna e di ogni specie di strumenti musicali, sarete pronti a prostrarvi e adorare la statua che io ho fatto, bene; altrimenti, in quel medesimo istante, sarete gettati in mezzo a una fornace di fuoco ardente. Quale dio vi potrà liberare dalla mia mano?».
Ma Sadrac, Mesac e Abdènego risposero al re Nabucodònosor: «Noi non abbiamo bisogno di darti alcuna risposta in proposito; sappi però che il nostro Dio, che serviamo, può liberarci dalla fornace di fuoco ardente e dalla tua mano, o re. Ma anche se non ci liberasse, sappi, o re, che noi non serviremo mai i tuoi dèi e non adoreremo la statua d’oro che tu hai eretto».
Allora Nabucodònosor fu pieno d’ira e il suo aspetto si alterò nei confronti di Sadrac, Mesac e Abdènego, e ordinò che si aumentasse il fuoco della fornace sette volte più del solito. Poi, ad alcuni uomini fra i più forti del suo esercito, comandò di legare Sadrac, Mesac e Abdènego e gettarli nella fornace di fuoco ardente.
I servi del re, che li avevano gettati dentro, non cessarono di aumentare il fuoco nella fornace, con bitume, stoppa, pece e sarmenti. La fiamma si alzava quarantanove cùbiti sopra la fornace e uscendo bruciò quei Caldèi che si trovavano vicino alla fornace. Ma l’angelo del Signore, che era sceso con Azarìa e con i suoi compagni nella fornace, allontanò da loro la fiamma del fuoco della fornace e rese l’interno della fornace come se vi soffiasse dentro un vento pieno di rugiada. Così il fuoco non li toccò affatto, non fece loro alcun male, non diede loro alcuna molestia.
Allora il re Nabucodònosor rimase stupito e alzatosi in fretta si rivolse ai suoi ministri: «Non abbiamo noi gettato tre uomini legati in mezzo al fuoco?». «Certo, o re», risposero. Egli soggiunse: «Ecco, io vedo quattro uomini sciolti, i quali camminano in mezzo al fuoco, senza subirne alcun danno; anzi il quarto è simile nell’aspetto a un figlio di dèi».
Nabucodònosor prese a dire: «Benedetto il Dio di Sadrac, Mesac e Abdènego, il quale ha mandato il suo angelo e ha liberato i servi che hanno confidato in lui; hanno trasgredito il comando del re e hanno esposto i loro corpi per non servire e per non adorare alcun altro dio all’infuori del loro Dio».
trattio da: Daniele 3,14-20.46-50.91-92.95
Amo una patina lucida
“Amo una patina lucida sulle cose
illusione che la mia vita brilli
sul lungo nastro perverso del ricordo
dimentico di cercare facili sequenze morte
Nuova vita
desiderio
disillusione
Pensa la tuo trasloco
quando la stanza rimarrà vuota
pareti nude
sentono freddo
segni di passaggi
di occhi che hanno percorso quei sentieri
e i quadri
i loro fantasmi senza più nome
Atroce non avere un nome
o forse, perchè no la libertà di non essere nessuno.
Marianna, 20 anni
LIBRO DEI SALMI – Salmo 150
1 Alleluia.
Lodate Dio nel suo santuario,
lodatelo nel suo maestoso firmamento.
2 Lodatelo per le sue imprese,
lodatelo per la sua immensa grandezza.
3 Lodatelo con il suono del corno,
lodatelo con l’arpa e la cetra.
4 Lodatelo con tamburelli e danze,
lodatelo sulle corde e con i flauti.
5 Lodatelo con cimbali sonori,
lodatelo con cimbali squillanti.
6 Ogni vivente dia lode al Signore.
Alleluia.
Felix qui potuit rerum cognoscere causas.Virgilio, Georgiche, lI, 489
Le Georgiche sono state composte nel 37/30 a.C. periodo delle lotte tra Ottaviano e Antonio (31 battaglia di Azio). Sono un’opera in quattro libri dedicata a Mecenate e composta sotto il suo invito. Mecenate ordina a Virgilio di scrivere l’opera perché quest’ultimo doveva appoggiare il programma augusteo di restaurazione agricola. L’opera rientra nel genere letterario del poema a carattere didascalico sull’agricoltura però non è un’opera che vuole insegnare a coltivare i campi. Letterariamente esprime, infatti, la visione della natura e della vita agreste propria dell’autore anche se all’interno sono presenti delle parti a carattere tecnico per la lavorazione dei campi. Virgilio riprende le parti a carattere tecnico in modo particolare dalla de Res Rustica di Varrone e poi dalle letture di Catone il Censore (de Agricoltura).
L’opera assume anche significato politico perché ha lo scopo, secondo il programma augusteo, di risanare e riassestare l’economia agricola. questa attraversava una fase di crisi per l’indebolirsi della piccola proprietà, per l’estendersi dei latifondi e inoltre perché danneggiata a causa delle lotte civili e dalle confische delle terre distribuite poi ai veterani.
L’opera ha anche significato morale perché la vita agreste viene considerata depositaria dei valori del mos maiorum (tradizione: culto della famiglia, religiosità, patriottismo, laboriosità, la povertà intesa come frugalità, umiltà). Virgilio aderisce a questi elementi presenti nel programma di Augusto perché anche lui era d’accordo con gli ideali che si volevano restaurare.
tratto da: http://latine.studentville.it/mondolatino/letteratura/eta_augustea-3/virgilio-22.htm
That the monster serves a utilitarian purpose…
“Secondo il potere dell’ “ambivalenza”, che introduce ad una verità più alta e “poliedrica” rispetto all’univocità del concetto logico-razionale, il mostruoso ha sempre una sua positività ed è in fondo (spesso, suo malgrado) un potenziale alleato dell’eroe che affronta la difficile avventura. Cfr. V. Jewiss, Monstruous Movements and Metaphors in Dante’s. Divine Comedy, in «Forum Italicum», vol. 32, n. 2, Fall 1998, p. 340: «[…] That the monsterserves a utilitarian purpose, is part of rather than opposed to God’s plan, and fits within the general framework of Dante’s poetics articulated in the first canto: “ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai, / dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte.” (But, to treat of the good that I found in it, I will tell of the other things I saw there. Inf. 1: 8-9). Dante pushes beyond the horrors of hell and an aesthetics of the ugly to articulate an instrumentality of the monstrous which unfolds within the parameters of God’s grace. Interestingly, in his Etymologies, Isidore of Seville makes a subtle but crucial distinction in his study of monsters which bears relevance to my point. He insists that they are not contrary to nature because they are made by divine will and thus are intended to be part of creation. Rather, they are against what we call nature. In other words, monsters startle and terrify us, but they do not ruffle God, for they are part of his plan. Isidore’s definition, which posits that monsters are within God’s framework but outside of ours, is striving towards the type of instrumentality Dante creates in the Inferno»…”
tratto da: “Inferno V: gli spiriti amanti e l’egoismo dell’amore”, Marino Alberto Balducci, BIBLIOTHECA PHOENIX, Carla Rossi, nota 17, pg.16
L’amore promette infinità
« Eros » e « agape » – differenza e unità
3. All’amore tra uomo e donna, che non nasce dal pensare e dal volere ma in certo qual modo s’impone all’essere umano, l’antica Grecia ha dato il nome di eros. Diciamo già in anticipo che l’Antico Testamento greco usa solo due volte la parola eros, mentre il Nuovo Testamento non la usa mai: delle tre parole greche relative all’amore — eros, philia (amore di amicizia) e agape— gli scritti neotestamentari privilegiano l’ultima, che nel linguaggio greco era piuttosto messa ai margini. Quanto all’amore di amicizia (philia), esso viene ripreso e approfondito nel Vangelo di Giovanni per esprimere il rapporto tra Gesù e i suoi discepoli. La messa in disparte della parola eros, insieme alla nuova visione dell’amore che si esprime attraverso la parola agape, denota indubbiamente nella novità del cristianesimo qualcosa di essenziale, proprio a riguardo della comprensione dell’amore. Nella critica al cristianesimo che si è sviluppata con crescente radicalità a partire dall’illuminismo, questa novità è stata valutata in modo assolutamente negativo. Il cristianesimo, secondo Friedrich Nietzsche, avrebbe dato da bere del veleno all’eros, che, pur non morendone, ne avrebbe tratto la spinta a degenerare in vizio [1]. Con ciò il filosofo tedesco esprimeva una percezione molto diffusa: la Chiesa con i suoi comandamenti e divieti non ci rende forse amara la cosa più bella della vita? Non innalza forse cartelli di divieto proprio là dove la gioia, predisposta per noi dal Creatore, ci offre una felicità che ci fa pregustare qualcosa del Divino?
4. Ma è veramente così? Il cristianesimo ha davvero distrutto l’eros? Guardiamo al mondo pre-cristiano. I greci — senz’altro in analogia con altre culture — hanno visto nell’eros innanzitutto l’ebbrezza, la sopraffazione della ragione da parte di una « pazzia divina » che strappa l’uomo alla limitatezza della sua esistenza e, in questo essere sconvolto da una potenza divina, gli fa sperimentare la più alta beatitudine. Tutte le altre potenze tra il cielo e la terra appaiono, così, d’importanza secondaria: « Omnia vincit amor », afferma Virgilio nelle Bucoliche — l’amore vince tutto — e aggiunge: « et nos cedamus amori » — cediamo anche noi all’amore [2]. Nelle religioni questo atteggiamento si è tradotto nei culti della fertilità, ai quali appartiene la prostituzione « sacra » che fioriva in molti templi. L’eros venne quindi celebrato come forza divina, come comunione col Divino.
A questa forma di religione, che contrasta come potentissima tentazione con la fede nell’unico Dio, l’Antico Testamento si è opposto con massima fermezza, combattendola come perversione della religiosità. Con ciò però non ha per nulla rifiutato l’eros come tale, ma ha dichiarato guerra al suo stravolgimento distruttore, poiché la falsa divinizzazione dell’eros, che qui avviene, lo priva della sua dignità, lo disumanizza. Infatti, nel tempio, le prostitute, che devono donare l’ebbrezza del Divino, non vengono trattate come esseri umani e persone, ma servono soltanto come strumenti per suscitare la « pazzia divina »: in realtà, esse non sono dee, ma persone umane di cui si abusa. Per questo l’eros ebbro ed indisciplinato non è ascesa, « estasi » verso il Divino, ma caduta, degradazione dell’uomo. Così diventa evidente che l’eros ha bisogno di disciplina, di purificazione per donare all’uomo non il piacere di un istante, ma un certo pregustamento del vertice dell’esistenza, di quella beatitudine a cui tutto il nostro essere tende.
5. Due cose emergono chiaramente da questo rapido sguardo alla concezione dell’eros nella storia e nel presente. Innanzitutto che tra l’amore e il Divino esiste una qualche relazione: l’amore promette infinità, eternità — una realtà più grande e totalmente altra rispetto alla quotidianità del nostro esistere. Ma al contempo è apparso che la via per tale traguardo non sta semplicemente nel lasciarsi sopraffare dall’istinto. Sono necessarie purificazioni e maturazioni, che passano anche attraverso la strada della rinuncia. Questo non è rifiuto dell’eros, non è il suo « avvelenamento », ma la sua guarigione in vista della sua vera grandezza.
Ciò dipende innanzitutto dalla costituzione dell’essere umano, che è composto di corpo e di anima. L’uomo diventa veramente se stesso, quando corpo e anima si ritrovano in intima unità; la sfida dell’eros può dirsi veramente superata, quando questa unificazione è riuscita. Se l’uomo ambisce di essere solamente spirito e vuol rifiutare la carne come una eredità soltanto animalesca, allora spirito e corpo perdono la loro dignità. E se, d’altra parte, egli rinnega lo spirito e quindi considera la materia, il corpo, come realtà esclusiva, perde ugualmente la sua grandezza. L’epicureo Gassendi, scherzando, si rivolgeva a Cartesio col saluto: « O Anima! ». E Cartesio replicava dicendo: « O Carne! » [3]. Ma non sono né lo spirito né il corpo da soli ad amare: è l’uomo, la persona, che ama come creatura unitaria, di cui fanno parte corpo e anima. Solo quando ambedue si fondono veramente in unità, l’uomo diventa pienamente se stesso. Solo in questo modo l’amore — l’eros — può maturare fino alla sua vera grandezza.
Oggi non di rado si rimprovera al cristianesimo del passato di esser stato avversario della corporeità; di fatto, tendenze in questo senso ci sono sempre state. Ma il modo di esaltare il corpo, a cui noi oggi assistiamo, è ingannevole. L’eros degradato a puro « sesso » diventa merce, una semplice « cosa » che si può comprare e vendere, anzi, l’uomo stesso diventa merce. In realtà, questo non è proprio il grande sì dell’uomo al suo corpo. Al contrario, egli ora considera il corpo e la sessualità come la parte soltanto materiale di sé da adoperare e sfruttare con calcolo. Una parte, peraltro, che egli non vede come un ambito della sua libertà, bensì come un qualcosa che, a modo suo, tenta di rendere insieme piacevole ed innocuo. In realtà, ci troviamo di fronte ad una degradazione del corpo umano, che non è più integrato nel tutto della libertà della nostra esistenza, non è più espressione viva della totalità del nostro essere, ma viene come respinto nel campo puramente biologico. L’apparente esaltazione del corpo può ben presto convertirsi in odio verso la corporeità. La fede cristiana, al contrario, ha considerato l’uomo sempre come essere uni-duale, nel quale spirito e materia si compenetrano a vicenda sperimentando proprio così ambedue una nuova nobiltà. Sì, l’eros vuole sollevarci « in estasi » verso il Divino, condurci al di là di noi stessi, ma proprio per questo richiede un cammino di ascesa, di rinunce, di purificazioni e di guarigioni.
6. Come dobbiamo configurarci concretamente questo cammino di ascesa e di purificazione? Come deve essere vissuto l’amore, perché si realizzi pienamente la sua promessa umana e divina? Una prima indicazione importante la possiamo trovare nel Cantico dei Cantici, uno dei libri dell’Antico Testamento ben noto ai mistici. Secondo l’interpretazione oggi prevalente, le poesie contenute in questo libro sono originariamente canti d’amore, forse previsti per una festa di nozze israelitica, nella quale dovevano esaltare l’amore coniugale. In tale contesto è molto istruttivo il fatto che, nel corso del libro, si trovano due parole diverse per indicare l’« amore ». Dapprima vi è la parola « dodim » — un plurale che esprime l’amore ancora insicuro, in una situazione di ricerca indeterminata. Questa parola viene poi sostituita dalla parola « ahabà », che nella traduzione greca dell’Antico Testamento è resa col termine di simile suono « agape » che, come abbiamo visto, diventò l’espressione caratteristica per la concezione biblica dell’amore. In opposizione all’amore indeterminato e ancora in ricerca, questo vocabolo esprime l’esperienza dell’amore che diventa ora veramente scoperta dell’altro, superando il carattere egoistico prima chiaramente dominante. Adesso l’amore diventa cura dell’altro e per l’altro. Non cerca più se stesso, l’immersione nell’ebbrezza della felicità; cerca invece il bene dell’amato: diventa rinuncia, è pronto al sacrificio, anzi lo cerca.
Fa parte degli sviluppi dell’amore verso livelli più alti, verso le sue intime purificazioni, che esso cerchi ora la definitività, e ciò in un duplice senso: nel senso dell’esclusività — « solo quest’unica persona » — e nel senso del « per sempre ». L’amore comprende la totalità dell’esistenza in ogni sua dimensione, anche in quella del tempo. Non potrebbe essere diversamente, perché la sua promessa mira al definitivo: l’amore mira all’eternità. Sì, amore è « estasi », ma estasi non nel senso di un momento di ebbrezza, ma estasi come cammino, come esodo permanente dall’io chiuso in se stesso verso la sua liberazione nel dono di sé, e proprio così verso il ritrovamento di sé, anzi verso la scoperta di Dio: « Chi cercherà di salvare la propria vita la perderà, chi invece la perde la salverà » (Lc 17, 33), dice Gesù — una sua affermazione che si ritrova nei Vangeli in diverse varianti (cfr Mt 10, 39; 16, 25; Mc 8, 35; Lc9, 24; Gv 12, 25). Gesù con ciò descrive il suo personale cammino, che attraverso la croce lo conduce alla resurrezione: il cammino del chicco di grano che cade nella terra e muore e così porta molto frutto. Partendo dal centro del suo sacrificio personale e dell’amore che in esso giunge al suo compimento, egli con queste parole descrive anche l’essenza dell’amore e dell’esistenza umana in genere.
tratto da:LETTERA ENCICLICA “DEUS CARITAS EST”BENEDETTO XVI, 25.12.2005
”L’arte di dormire da soli”
“In America sono increduli:una francese parigina, perfino bella donna, che scrive un libro per raccontare la sua scelta, né religiosa né femminista, di castità. Per gli americani la Francia è Dominique Strauss-Kahn, una continua festa a luci rosse, tradimenti, intrecci disinvolti di corpi e di anime, baci nei caffè con gli sconosciuti, casa tua o casa mia? Invece Sophie Fontanel, giornalista e scrittrice , ha pubblicato qualche tempo fa un romanzo autobiografico “L’Envie” (“L’invidia” o “la voglia”) che è diventato velocemente un bestseller, in inglese verrà pubblicato con il titolo”L’arte di dormire da soli” e ha persino messo in dubbio il cliché dei francesi super erotizzati (portoricani con i golf a collo alto), introducendo il dubbio che questa fama sia dovuta anche a grandiose millanterie.”L’Envie” inizia così : “Per un lungo periodo che non voglio collocare nel tempo, né calcolare in numero di anni, ho vissuto quella che forse è la peggiore insubordinazione della nostra epoca, cioè l’assenza di vita sessuale.” Per rassicurare i maniaci, e i liberarli dall’istinto crocerossino di fare cambiare idea a Sophie Fontanel (tic molto banale: la ragazza dice così perchè non ha ancora conosciuto me), si vuole svelare che questo periodo di castità è già stato interrotto, tra l’altro grazie ad un italiano. E nel frattempo l’autrice è stata sospettata più o meno di tutto di voler propagandare la morale cattolica del secolo scorso, di essere frigida, supponente, bacchettona, di odiare gli uomini. Niente sesso, non ne ho voglia si può dire una sera o due (il mal di testa, la preoccupazione per le sorti del paese, lo sconvolgimento provocato dall’ossessione per le mooncup di di Beppe Grillo) ma scegliere di dire basta, razionalmente, chiudere le porte del desiderio (Fontanel scrive di “lucchetti”), rispondere a un richiamo di tranquillità, è stata una piccola rivoluzione. Una scelta non conforme, per una donna single e corteggiata, disinibita da sempre ma delusa dalle one night stand e dalla banalità, dalla grettezza di rapporti tutti simili, tutti ordinari, un pò deprimenti. Ha scritto che mentre il mondo faceva l’amore per esistere, lei sceglieva la libertà di non farlo per niente per ricominciare ad esistere, in attesa di qualcosa di davvero straordinario, luminoso. Ha usato le parole rivoluzione e insubordinazione e i critici, scrive l’Atlantic, non sapevano come classificarla: reazionaria o progressista?Visionaria o prude? Oppure un nuovo modo francese di essere chic e desiderabile? Mentre molti lettori, anche uomini, l’hanno ringraziata per il senso di sollievo provato nello scoprire che non erano i soli a provare questo vuoto di desiderio. La voglia di coltivare i gerani, di leggere di notte, di non pensare al sesso, di non dover essere sempre pronti per il sesso, di andar in vacanza e essere gli unici non in coppia, le uniche non preoccupate di sedurre o essere sedotte. Di fare sogni erotici, anche, ha scritto Sophie Fontanel, e abbracciare il cuscino. Lei l’ha chiamata: astinenza civile. Cioè la libertà di dire no, quando si pensava che l’unica risposta accettabile, sexy, adulta e corretta fosse: sempre sì.”
tratto da: “Il Foglio” , “Astinenza civile”, di Annalena, articolo del 6 marzo 2013
Hepatica nobilis o Erba Trinità
Fiori solitari azzurro viola con stami bianchi. Le tre brattee dell’involucro, ravvicinatissime al fiore simulano un calice. Foglie tutte radicali, trilobe, inferiormente villose e colorate di porpora scuro, da qui l’origine del nome per la sua somiglianza con il fegato per l’antico concetto della “Signatura” (principio delle affinità formali). Il nome generico (Hepatica) venne introdotto dal botanico scozzese Philip Miller (Chelsea,1691 – Chelsea, 1771) in una pubblicazione del 1754 e deriva dal greco antico “hèpar” oppure ”hèpatos”(= fegato). Il nome specifico (nobilis) deriva dal latino (= notabile, noto, conosciuto), probabilmente per la “notorietà” che questa pianta aveva nel passato per le sue supposte proprietà farmacologiche. Il nome comune “Erba trinità” deriva dal Medioevo in quanto negli affreschi di carattere religioso spesso le foglie di questa pianta servivano a simboleggiare uno dei dogmi cristiano-cattolici relativi alla natura di Dio. Il binomio scientifico attualmente accettato (Hepatica nobilis) è stato proposto dal naturalista germanico Johann Christian Daniel von Schreber (Weißensee, Turingia, 1739 — Erlangen, 1810) in una pubblicazione del 1771. In lingua tedesca questa pianta si chiama Leberblümchen; in francese si chiama Hépatique à trois lobes ; in inglese si chiama: Liverleaf. Erba trinità è dedicata a Giove, è legata al fuoco ed all’amore. Fu anche pianta sacra simbolicamente associata alla Santa Trinità. Fiorisce da febbraio a maggio.
Anna Karenina
Riflessioni su un momento storico importante, sulle convenzioni sociali sulle quali è costruito un ordine, una struttura che da forma.
Cosa sia saltato, cosa rimanga. Il valore di un sentimento forte unito a una passione totalizzante può destabilizzare il fondamento di un’ordine sociale?
GiambattistaVico
Eterogenesi dei fini
La concezione dell'”eterogenesi dei fini” fu teorizzata per la prima volta da Giambattista Vico, secondo cui la storia umana contiene in sé potenzialmente la realizzazione di certe finalità. In questo senso dunque ben si comprende che il percorso evolutivo dell’uomo è mirato al raggiungimento, tappa dopo tappa, di un qualche fine. Tale percorso non è però da intendersi come lineare. Può accadere che, mentre ci si propone di raggiungere alti e nobili obiettivi, la storia arrivi a conclusioni opposte. Talvolta infatti l’umanità corre il rischio del “ricorso”, ossia rischia di tornare indietro nel prestabilito percorso di auto-miglioramento a causa di errori di natura sociale e/o politica (inaridimento del sapere, perdita di memoria storica). Ma il “ricorso” è soltanto temporeaneo. Con forza, coraggio, fatica e sofferenza ogni volta l’umanità ha saputo e saprà sempre riprendere il suo cammino progressivo.
tratto da Wikipedia
Eterogenesi dei fini
Perché pur gli uomini hanno essi fatto questo mondo di nazioni (che fu il primo principio incontrastato di questa Scienza, dappoiché disperammo di ritruovarla da’ filosofi e da’ filologi); ma egli è questo mondo, senza dubbio, uscito da una mente spesso diversa ed alle volte tutta contraria sempre superiore ad essi fini particolari ch’essi uomini sì avevan proposti; i quali fini ristretti, fatti mezzi per servire a fini più ampi, gli ha sempre adoperati per conservare l’umana generazione in questa terra Imperciocché vogliono gli uomini usar la libidine bestiale e disperdere i loro parti, e ne fanno la castità de’ matrimoni, onde surgono le famiglie; vogliono i padri esercitare smoderatamente gl’imperi paterni sopra i clienti, e li assoggettiscono agl’imperi civili, onde surgono le città; vogliono gli ordini regnanti de’ nobili abusare la libertà signorile sopra i plebei, e vanno in servitù delle leggi, che fanno la libertà popolare; vogliono i popoli liberi sciogliersi dal freno delle lor leggi, e vanno nella soggezion de’ monarchi; vogliono i monarchi, in tutti i vizi della dissolutezza che gli assicuri, invilire i loro sudditi, e gli dispongono a sopportare la schiavitù di nazioni più forti; vogliono le nazioni disperdere se medesime, e vanno a salvarne gli avanzi dentro le solitudini, donde, qual fenice, nuovamente risurgano. Questo, che fece tutto ciò, fu pur mente, perché ‘1 fecero gli uomini con intelligenza; non fu fato, perché ‘l fecero con elezione; non caso perché con perpetuità, sempre così faccendo, escono nelle medesime cose.
tratto da:Giovanni Battista Vico, Scienza nuova (1744)