Nel capitolo cinquantunesimo del Tao Te Ching…
Tratto da:”La saggezza del Tao”, Wayne W. Dyer, ed. Corbaccio, pg.324
51
La Via connette tutti gli esseri viventi alla Sorgente.
Balza dentro la vita,
incosciente, perfetta, libera;
assume un corpo fisico;
lascia che le circostanze la perfezionino.
Per questo tutti gli esseri onorano la Via
e apprezzano la sua virtù.
Non stati obbligati a venerare il Tao
e a rendere omaggio alla sua virtù,
ma lo fanno sempre spontaneamente.
Il Tao dona loro la vita.
La virtù li alimenta e li sostiene,
li alleva e li protegge.
Il Tao produce, ma non possiede;
il Tao dona senza pretendere nulla;
Il Tao favorisce la crescita senza imporsi.
questo si chiama virtù nascosta.
Tratto da:”La saggezza del Tao”, Wayne W. Dyer, ed. Corbaccio
Bastoni del cammino di Compostela:« Ultreya! Suseya! »
Il Cammino di Santiago di Compostela è il lungo percorso che i pellegrini fin dal Medioevo intraprendono, attraverso la Francia e la Spagna, per giungere al santuario di Santiago di Compostela, presso cui ci sarebbe la tomba di Giacomo il Maggiore. La conchiglia rappresenta il tempo da dedicare alla riflessione sulla natura dei sentimenti corporei, morali, etici e spirituali: è il simbolo dell’introversione mentale e di temperamento spirituale. E’ anche l’emblema dell’illuminazione, della mente nobilitata, di chi sa come deve procedere. L’alchimia invece, indica i valori iniziatici della conchiglia: Newton probabilmente indicava nel pellegrinaggio a Santiago, il primo viaggio degli aspiranti creatori della pietra. Molti pellegrini nel cammino usano ricamarsi una conchiglia nel mantello, in segno di protezione e riconoscimento. Nella foto bastoni per i cammino di Santiago intagliati a mano dal maestro d’arte Gianni Lusiani. Cellulare 3386553472 , http://www.giannilusiani.it
Il canto della Perla
L’Inno – o Canto – della Perla è una composizione gnostica compresa negli atti apocrifi dell’apostolo Giuda Tommaso
pervenutaci in una versione siriaca ed una greca, di cui la prima è verosimilmente l’originale.
La lettura e il commento di questo testo trae origine dal desiderio di conoscere il pensiero gnostico e
di poterlo rileggere in chiave psicologica. Difficile tracciare un breve riassunto senza togliere un po’
di incanto all’opera. Il testo, dietro cui si cela il dramma dell’intera esistenza umana, narra la storia
di un giovane principe che viene inviato dall’oriente, sua patria, in Egitto per recuperare l’unica perla
che giace negli inferi custodita da un serpente.
Nell’interpretazione gnostica
il giovane principe è lo spirito individuale che dalla sua patria celeste viene inviato sulla terra per recuperare una parte della sua anima che, corrotta dalla materia,
giace negli inferi. Qui, a fronte dei piaceri e delle seduzioni della vita che lo distolgono dal suo
compito, inducendolo in uno stato di torpore e oblio, vi è all’opposto l’intervento di figure dotate
di maggiore consapevolezza, i genitori, che per il tramite della lettera rievocano nel figlio antiche
conoscenze relative alla sua origine celeste. In questo passaggio sta il fulcro di tutta la gnosi: la
presa di coscienza, o meglio il riconoscimento, di chi si è e del proprio compito
Solo a partire da
tale consapevolezza il giovane può intraprendere la conquista della perla e quindi la riunificazione
della sua persona, che è preludio della salvezza celeste
.
Pur non essendosi occupato direttamente del Canto della Perla, Jung riservò un’attenzione particolare allo gnosticismo
e non mancò di trattare il simbolo della perla facendo convergere contributi. Ricollegandosi ad un motivo ricorrente dell’arte cinese classica, il drago con una perla dorata davanti a sé, Jung ritiene che quest’ultima simboleggi
«l’unicità dell’individuo imperituro che esiste sempre», «quella cosa minuscola, quell’individuo unico,
quel piccolo sé, che è piccolo come la punta di un ago eppure, proprio perché è così piccolo, è anche più
grande del grande»
. Applicando questa concezione al mito gnostico si ha che la riconquista della perla
corrisponde, in una prospettiva Junghiana, al processo di individuazione.
La condizione umana è spesso vissuta come una specie di torpore o sonno nel quale compiamo azioni
senza esserne realmente consapevoli, nel quale abbiamo la sensazione di esprimere un comportamento
non nostro ma conforme alle richieste sociali; persino i nostri pensieri e la nostra identità ci appaiono
come qualcosa di sovrapposto o di indotto dall’esterno. Eppure non sempre abbiamo gli strumenti per
uscire da questo stato di immobilità. Allora può accadere che un evento esterno apparentemente casuale,
o uno slancio interiore, o ancora una persona amata che vede la nostra difficoltà, intervengano in nostro
aiuto ricordandoci che abbiamo un compito: riscoprire quella parte della nostra anima andata perduta.
Questa ricomposizione delle parti di sé è il viaggio alla scoperta dell’inconscio. Non è un caso che la perla si trovi sul fondo degli abissi, in una sorta di regno infernale
, custodita da un serpente malvagio poiché
allude al lungo e faticoso passaggio che l’uomo compie attraverso i propri abissi e i propri inferi.
Nel testo le imprese per la conquista della perla sono solo accennate; questo aspetto apparentemente
singolare è spiegabile alla luce della concezione gnostica secondo cui l’apice dell’esperienza religiosa è
il momento della rivelazione (gnosi), che nel testo corrisponde al risveglio del giovane sollecitato dalla
lettera; tutte le azioni che seguono e che riguardano la conquista della perla, essendo considerate il frutto
di questa grazia, risultano naturali, e non richiedono di essere approfondite.
Tuttavia nella nostra esperienza, il primo riconoscimento di una parte di sé prima ignota, pur essendo
sorgente di elevate capacità trasformative, non è sufficiente in sé; è necessaria una pratica costante
e assidua di consapevolezza per contrastare le istanze regressive10 sempre presenti nell’inconscio. E’
proprio in questa fase del percorso allora che occorre aprire una porta, iniziare un nuovo capitolo, che
si soffermi sulle lunghe e faticose imprese dell’uomo alla riconquista di Sé e della sua ombra. E, in
assenza di altre guide, è in questo lungo e progressivo cammino che la psicanalisi può fornire un imprescindibile punto di riferimento.
tratto da:http://www.fondazionesperia.it/pdf/CANTOPERLA.pdf
così che le acque non ne oltrepassassero i confini
Dal libro dei Proverbi.
Così parla la Sapienza di Dio:
«Il Signore mi ha creato come inizio della sua attività,
prima di ogni sua opera, all’origine.
Dall’eternità sono stata formata,
fin dal principio, dagli inizi della terra.
Quando non esistevano gli abissi, io fui generata,
quando ancora non vi erano le sorgenti cariche d’acqua;
prima che fossero fissate le basi dei monti,
prima delle colline, io fui generata,
quando ancora non aveva fatto la terra e i campi
né le prime zolle del mondo.
Quando egli fissava i cieli, io ero là;
quando tracciava un cerchio sull’abisso,
quando condensava le nubi in alto,
quando fissava le sorgenti dell’abisso,
quando stabiliva al mare i suoi limiti,
così che le acque non ne oltrepassassero i confini,
quando disponeva le fondamenta della terra,
io ero con lui come artefice
ed ero la sua delizia ogni giorno:
giocavo davanti a lui in ogni istante,
giocavo sul globo terrestre,
ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo».
tratto da : Bibbia, Proverbi 8, 22-31
Gilgamesh
L’Epopea di Gilgamesh è un ciclo epico di ambientazione sumerica, scritto in caratteri cuneiformi su tavolette d’argilla, che risale a circa 4500 anni fa tra il 2600 a.C. e il 2500 a.C. Esistono sei versioni conosciute di poemi che narrano le gesta di Gilgamesh, re sumero di Uruk, nipote di Enmerkar e figlio di Lugalbanda. La versione più conosciuta, la cosiddetta Epopea di Gilgamesh è babilonese[1] Gilgamesh è il re sumero della città di Uruk. Guerriero crudele, è per due terzi divino e per un terzo mortale e tiene sotto il suo dominio un popolo sempre più stanco delle sue prepotenze e ingiustizie. Gli dei, dunque, per punirlo, decidono di creare un uomo in grado di contrastarlo, Enkidu. Egli è primitivo e rozzo, plasmato dall’argilla e descritto nell’epopea come selvaggio sia nel fisico che nei comportamenti. I due si scontrano, come previsto, ma lo scontro finisce alla pari. Colpito dalla forza di Enkidu, Gilgamesh stringe con lui un patto d’amicizia. Decidono di andare insieme alla Foresta dei Cedri per prelevare il prezioso legno di questi alberi. A guardia della foresta c’è però un mostro, Humbaba, che i due riescono a sconfiggere senza grossi problemi. Accresciuta ulteriormente la sua fama e l’amicizia con Enkidu, Gilgamesh viene corteggiato da Ishtar (la dea della bellezza e della fecondità, ma anche della guerra e della distruzione), che lo vorrebbe come sposo, estasiata dalle sue doti di guerriero e dalla sua fama. Gilgamesh però la rifiuta, visto il triste destino dei passati amanti della dea, come Dumuzi, e Ishtar, con l’aiuto di Anu (il dio del Cielo e padre di Ishtar stessa) invia contro i due amici un ferocissimo toro divino di colore blu. Nel combattimento che ne consegue, Enkidu blocca il selvaggio animale e Gilgamesh gli infila la spada tra le corna, uccidendolo. Oltraggiata ancora di più, Ishtar fa morire Enkidu con una brutale malattia, che gli fa patire una morte lenta e atroce. Gilgamesh scopre così per la prima volta il dolore per la perdita di un caro amico, e rimane molto scosso. Decide dunque di intraprendere un viaggio alla ricerca del senso della vita e del segreto dell’immortalità. Viene a sapere dell’esistenza di un uomo a conoscenza di questo segreto: Utanapishtim, un uomo molto vecchio e saggio che scampò, grazie all’aiuto di Enki, al diluvio universale, e a cui gli dei fecero il dono dell’immortalità. Egli vive isolato al di là dell’oceano della Morte e, dato il grandissimo segreto che conosce, la sua casa è raggiungibile solo dopo aver superato molti ostacoli. Gilgamesh riesce a superare ogni prova, tra cui gli uomini scorpione, posti a guardia dei monti Mashu, e giunge in un bellissimo giardino dove una donna lo implora di fermarsi e non proseguire. Il valoroso re non cede alle richieste e sceglie di andare avanti, giungendo finalmente nel luogo dove vive Utanapishtim. La delusione di Gilgamesh è, però, grande: il saggio gli risponde che la morte è inevitabile per l’uomo che, prima o dopo, dovrà lasciare questo mondo. Gilgamesh, ormai senza speranze, sta per andarsene quando Utanapishtim, impietosito, gli rivela che c’è un’unica possibilità per l’eterna giovinezza: è una pianta che si trova in fondo al mare. Gilgamesh parte subito alla ricerca del prezioso vegetale e, dopo averlo trovato, decide di riposarsi sulle rive di un ruscello. Al suo risveglio, scopre che la pianta tanto preziosa è stata mangiata da un serpente, che dopo averla mangiata ha cambiato pelle. Sconfitto, torna così ad Uruk, la sua città. Nel finale il testo originale è ricco di lacune, dovute certamente alla mancanza di alcune tavolette, andate ormai perdute. Recentemente sono però state trovate altre tavolette che raccontano del suicidio di Gilgamesh insieme alla sua corte. Gilgamesh prega il dio degli inferi di fargli rivedere Enkidu per un’ultima volta. Il desiderio viene esaudito e l’anima di quest’ultimo si presenta a Gilgamesh. Enkidu rivela al suo grande amico che la vita nell’oltretomba è triste e cupa, piena di rimpianti per tutto ciò che non si è fatto nella vita terrena e per le occasioni che si sono perse. Gli consiglia pertanto di lasciar stare in pace i morti e di godersi la vita finché possibile, dato che nell’oltretomba l’esistenza sarà piatta e senza felicità. Le uniche persone che potranno godere di un’esistenza dignitosa nell’aldilà sono coloro che hanno generato numerosi figli, specchio della concezione secondo cui l’unico modo di vivere in eterno è quello di lasciare una discendenza.
Diluvio Universale
Il Diluvio universale (o anche semplicemente il Diluvio) è la storia mitologica di una grande inondazione mandata da una o più divinità per distruggere la civiltà come atto di punizione divina. È un tema ricorrente in molte varie culture, anche se probabilmente le più conosciute in tempi moderni sono il racconto biblico dell’Arca di Noè, la storia Indù Puranica di Manu, passando per la storia di Deucalione nella mitologia greca o Utnapishtim nell’Epopea di Gilgamesh della mitologia babilonese. La diffusione di un simile mitologema in culture molto diverse ha suggerito che possa esistere un fondamento di realtà; un’antica catastrofe che, magari ingigantita e mitizzata, è giunta fino a noi, dapprima tramite la tradizione orale, poi grazie agli scritti antichi.
Che dirai questa sera, povera anima solitaria
Che dirai questa sera, povera anima solitaria, che dirai, cuore mio, cuore già vizzo, alla più bella,
alla più buona, alla più cara, il cui sguardo divino t’ha all’improvviso fatto rifiorire?
– A cantare le sue lodi impegneremo tutto il nostro orgoglio: nulla eguaglia la dolcezza della sua
autorità; la sua carne spirituale ha il profumo degli Angeli, il suo occhio ci veste di splendore.
Sia nella notte e nella solitudine che nella strada e fra la folla il suo fantasma danza nell’aria come
una fiaccola.
A volte parla, dice: «Sono bella e ordino che per amor mio tu non ami che il Bello. Sono insieme
l’Angelo custode, la Musa e la Madonna.
Charles Baudelaire
Baudelaire come Dante in viaggio nello spazio interiore dell’anima
immmagine:Portrait de Charles Baudelaire par Franz Kupka“Baudelaire è il grande poeta della modernità, della città già metropoli: nell’Ottocento cammina instancabile nelle vie della capitale parigina, che come Roma e Londra, era già da tempo un mondo, dalla Parigi di Villon e poi di Dumas con i suoi moschettieri. Ma quel mondo, le notti parigine, le luci, le donne, la solitudine, l’ansia, il vino, l’assenzio, i gatti silenziosi e il cupo turbinio notturno, quel mondo in Baudelaire diviene universo moderno. Il poeta è incantato dal nuovo, ma aristocraticamente ostile alle sue manifestazioni volgari: comprende subito anzi profetizza, l’età della massa e della disumanizzazione, la vittoria della volgarità del mondo industriale sugli spiriti solitari e sensibili. Tuttavia, non rifiuta quel mondo in toto: la modernità e anche l’industria manifestano il travaglio dell’uomo. Non è il poeta elegiaco, che si ritira in campagna e guarda da lontano la città moderna a cui è inadeguato. No, percorre la città giorno e notte, la scruta, ne coglie ogni manifestazione di vita, di putrescenza, di desiderio, ogni crepa e ogni speranza. Baudelaire sente che è messo in crisi lo spazio interiore, lo spirito. E’ il primo poeta che si sente in esilio pur essendo a casa sua, nella splendida, illuminata Parigi. Ma all’anima questi aggettivi non bastano. Baudelaire trasforma Parigi nel mondo intero, nel labirinto in cui l’uomo si avventura, come Dante all’inizio del suo viaggio, nella selva oscura. E come Dante cerca una luce, una risalita, uno splendore eterno e certo. Baudelaire però è un poeta moderno, un uomo moderno. Non gli è data l’ascesa in Paradiso. eppure non gli è precluso il suo sogno. ”
tratto da: “Tu metteresti l’universo intero. Poesie per giovani innamorati”, a cura di Roberto Mussapi, Salani editore, 2012
Che sol per voi servir la vita bramo
“E voi pur sete quella ch’io più amo,
e che far mi potete maggior dono,
e ‘n cui la mia speranza più riposa;
che sol per voi servir la vita bramo,
e quelle cose che a voi onor sono
dimando e voglio: ogni altra m’è noiosa.
Dar mi potete ciò ch’altri non m’osa,
ché ‘l sì e ‘l no di me in vostra mano
ha posto Amore; ond’io grande mi tegno.
La fede ch’eo v’assegno
muove dal portamento vostro umano;
ché ciascun che vi mira, in veritate
di fuor conosce che dentro è pietate.
Dunque vostra salute omai si mova,
e vegna dentro al cor, che lei aspetta,
gentil madonna, come avete inteso:
ma sappia che l’entrar di lui si trova
serrato forte da quella saetta
ch’Amor lanciò lo giorno ch’i’ fui preso;
per che l’entrare a tutt’altri è conteso,
fuor ch’a’ messi d’Amor, ch’aprir lo sanno
per volontà de la vertù che ‘l serra:
onde ne la mia guerra
la sua venuta mi sarebbe danno,
sed ella fosse sanza compagnia
de’ messi del signor che m’ha in balia.
Canzone, il tuo cammin vuol esser corto;
ché tu sai ben che poco tempo omai
puote aver luogo quel per che tu vai.
tratto da “Rime” Dante Alighieri
Dante in Amore
“Dante Alighieri nasce a Firenze nel 1265, figlio di agiata borghesia, studi completi, partecipazione alla tumultuosa vita politica del Comune. Morirà esule, a Ravenna, nel 1321. A nove anni aveva visto Beatrice, Bice Portinari, passare per strada, innamorandosene per sempre. Adolescente e poi giovane Beatrice sarà il centro dell’amore di lui, che, esule, cacciato e condannato a morte per la sconfitta della propria fazione, vivrà la seconda parte delle sua vita cercando di ricongiungersi a lei, che è già morta, giovane, lasciandolo disperato e in preda alla confusione totale. L’esilio di Dante, in viaggio di corte in corte, e la morte di Beatrice, in un certo senso coincidono: separato per sempre dalla donna che ama e dalla città per cui ha lealmente combattuto, Alighieri è sradicato da tutto, donna e luogo natio, è l’esule assoluto. Forse questo esilio è la condizione perchè Dante scriva il poema più grande di ogni tempo, che è la scoperta di una città mai esplorata prima di lui così completamente. Perchè privato della propria cittadinanza Dante scopre la città universale che inizia dalla buia selva infernale, sotto terra, per risalire, attraverso i vaghi e dolci tremori del purgatorio, alla luce del paradiso e di Dio. Chi lo salva e lo soccorre è Beatrice: la Divina Commedia inizia con il poeta perso nella selva della propria disperazione di uomo che ha smarrito la retta via. Impietosita di lui, anzi, amandolo ancora, pur dal Paradiso , Beatrice manda un emissario a salvarlo, a condurlo alla retta via passando per l’inferno, il purgatorio e accedendo al paradiso. Mentre Petrarca e i poeti della sua scuola continueranno a garantire alla loro amata eternità di vita anche in vecchiaia, e dopo la morte, grazie ai loro versi, Dante scrive di essere divenuto poeta per merito di una donna, è lei a salvarlo. La donna, la realtà , l’amore vengono prima della poesia e la consentono, la rendono possibile. Per questo il suo poema è la più grande opera poetica mai scritta, culminate nella visione di Dio, “L’amor che move il sole e l’altre stelle”.
tratto da: “Dante in amore”, a cura di Roberto Mussapi, Salani editore, 2007