Spinoza
Baruch Spinoza nacque il 24 novembre 1632 da genitori di religione ebraica divenuti poi marrani, cioè ebrei forzati a convertirsi al Cristianesimo. Il padre, Michael, era un mercante che aveva sposato in seconde nozze Hanna Debora da cui aveva avuto Baruch, rimasto orfano di madre all’età di sei anni il 5 novembre 1638. La famiglia originaria del Portogallo nel secondo decennio del secolo XVII fu costretta per motivi religiosi ad abbandonare il Portogallo e a stabilirsi nella protestante Olanda dove era nato Baruch. Inizialmente fu educato nella comunità ebraica sefardita diAmsterdam, ma solo presso la scuola della comunità, il Talmud Torah, portò a termine i primi quattro gradi di istruzione. Nel 1649, in seguito alla morte del fratello maggiore Isaac, fu costretto ad abbandonare gli studi per aiutare il padre Michael nella conduzione dell’azienda commerciale della famiglia. La sua curiosità e la sua sete di conoscenza rimasero comunque inalterate, spingendolo a frequentare innanzitutto le yeshivot (gruppi di studio per adulti) della comunità. In seguito alla maturazione di una sempre più marcata insoddisfazione nei confronti della vita e della religione ebraica e di un interesse crescente per altre idee filosofiche e scientifiche frequenta la scuola di latino di Franciscus Van den Enden, a partire dal 1654. Come è noto, grazie agli inventari portati a termine dopo la morte del filosofo, la biblioteca di Spinoza conteneva un certo numero di testi in latino, tra cui opere di Orazio, Gaio Giulio Cesare, Virgilio, Tacito,Epitteto, Livio, Plinio, Ovidio, Cicerone, Marziale, Petrarca, Petronio, Sallustio, a riprova di una passione nata probabilmente durante il periodo vissuto a contatto con Van den Enden. Cosa importante, oltre a questa preparazione in letteratura e filosofia classica, è che gli studenti di Van den Enden venivano quasi certamente messi al corrente di problemi più moderni, soprattutto di questioni attinenti allo sviluppo delle scienze naturali: è probabile che risalga a questo periodo della vita di Spinoza il suo primo contatto diretto con le opere di Cartesio. Il 27 luglio 1656 fu data lettura di un testo in ebraico di fronte alla volta della sinagoga dell’houtgracht, il canale di Amsterdam che attraversava il quartiere ebraico: un documento di cherem (bando o scomunica), gravissimo e mai revocato. «Durante la lettura di questa maledizione si sentiva di tanto in tanto cadere la nota lamentosa e protratta di un grande corno; le luci che si vedevano ardere brillanti al principio della cerimonia, vennero spente ad una ad una, a mano a mano che si procedeva, fino a che alla fine si spense anche l’ultima, simboleggiando l’estinzione della vita spirituale dello scomunicato, e l’assemblea rimase completamente al buio.»[4] Secondo studi recenti, tra i quali quello di Steven Nadler, l’eresia principale che portò alla scomunica di Spinoza sarebbe stata il non credere all’immortalità dell’anima mentre Nicola Abbagnano e i principali studiosi di Spinoza individuano la causa dell’inconciliabilità del suo pensiero con l’ebraismo nella sua identificazione di Dio con la natura («Deus, sive Natura»: Dio, ovvero la Natura) e nel rifiuto di un Dio-persona come quello biblico. Spinoza inoltre asseriva apertamente di ritenere la Bibbia una fonte di insegnamenti morali, ma non della verità; egli rifiutava il concetto di libero arbitrio e applicava la propria visione deterministica anche a Dio (negazione del creazionismo e della libertà di azione del Creatore): l’unica libertà che Dio ha nella visione spinoziana è l’assenza di costrizioni esterne. Nello stesso anno della scomunica (1656), a ventiquattr’anni, Spinoza fu costretto a lasciare la casa del padre e dopo un breve periodo passato a casa di Franciscus Van den Enden, che lo ospitò senza chiedere nulla in cambio, se non un aiuto nelle lezioni di latino, dovette lasciare anche Amsterdam. Nel 1660 si stabilì a Rijnsburg, in un villaggio presso Leida. Raccontava agli amici di aver persino subito un tentativo di assassinio una notte mentre tornava a casa e a riprova mostrava un mantello con il foro del pugnale.Dopo la morte del padre le sorelle cercarono di estrometterlo dalla eredità. Spinoza volle che i suoi diritti fossero rispettati e fece causa alle sorelle. Sebbene avesse vinto rinunciò a tutte le sue pretese e volle per sé semplicemente un letto con il baldacchino.Prese dimora prima nel 1665 a Voorburg, sobborgo dell’Aia, e quindi nel 1670 definitivamente nella stessa città dove visse sino alla sua morte mantenendosi con il suo lavoro di tornitore di lenti. Soggiornò per tutta la vita in camere d’affitto e gli si attribuisce un solo legame sentimentale con la figlia del suo insegnante di latino.[5] Aveva una piccola pensione dallo Stato e una rendita lasciatagli da un amico. Respinse altre offerte di aiuto economico e rifiutò la cattedra che gli era stata proposta a Heidelberg per non rinunciare alla sua libertà di pensiero. Spinoza aveva un’istintiva avversione per il clamore e la pubblicità. Molto prudentemente pubblicò le sue opere nell’anonimato rifiutando di trasformare l’episodio della sua scomunica in una polemica che avrebbe danneggiato l’unità della comunità ebraica. Non seguì l’esempio dell’eretico Uriel da Costa suicida per protestare la sua libertà ma allo stesso tempo espose con fermezza le sue convinzioni religiose su un Dio immanente e politiche sulla necessità di uno Stato laico. All’età di 29 anni e dopo la drammatica esperienza dell’espulsione dalla comunità ebraica, Spinoza pubblica i Principi della filosofia di Cartesio, con l’appendice Pensieri Metafisici, opera che gli diede fama di esegeta della filosofia cartesiana. In questa data (1661), si era già formata intorno a lui una cerchia di amici e discepoli, con i quali intratteneva un nutrito scambio epistolare, fonte preziosa sull’andamento della sua riflessione. La pubblicazione del Tractatus theologico-politicus suscitò notevole scandalo negli ambienti ecclesiastici, tanto cattolici quanto protestanti, e da essi si diffuse la cattiva fama di un empio e blasfemo Spinoza. Iniziò la scrittura dell’Etica nel 1661 a Rijnsburg, per poi tentare di pubblicarla una prima volta nel 1664, con il titolo di Methodus inveniendi argumenta redacta ordine et tenore geometrico. La scelta di adottare il metodo geometrico corrispondeva all’intenzione di rendere immediatamente evidente il carattere di verità, dimostrabile ed eterna, che aveva la sua filosofia. La Chiesa cattolica inserì le sue opere tra i libri proibiti nel marzo del 1679 e confermò la condanna nel 1690. Non si conoscono censure alle opere di Spinoza, forse mai redatte in quanto l’autore era ateo ex professo.[12] Cominciò così a formarsi quel mito di Spinoza ateo che trovò conferma, agli occhi dei suoi detrattori, con la pubblicazione (postuma) dell’Ethica, la cui prima parte, De Deo, sulla divinità, propone la definizione di Dio come l’unica ed infinita sostanza. Già nel primo periodo dopo la sua morte, la dottrina di Spinoza, interpretata come ateismo e come tale ampiamente condannata, incontrò invece fortuna presso i libertini che diffusero la fama di uno Spinoza ateo virtuoso. In realtà il suo panteismo era espressione di un profondo sentire religioso che rigettava ogni possibile autonomia del mondo rispetto a Dio, concepito perciò come immanente.[13]Spinoza affetto da congeniti disturbi respiratori, aggravati dalla polvere di vetro inalata a lungo nell’intaglio delle lenti[14]morì di tubercolosi, il 21 febbraio 1677 a 44 anni. La sua eredità era così misera che la sorella Rebecca ritenne meno costoso respingerla.
Wake Me Up SVEGLIAMI
“Omnis scientiae universus pueri lacrimis non valet”
“Tutto l’universo della conoscenza non vale le lacrime di un bambino”
“Vera” conoscenza
Per gli alchimisti la “vera” conoscenza ha origine quando l’individuo è in grado di creare un legame sensoriale con le cose percepite, per cui, come sottolineato da Jung, gli oggetti hanno valore in quanto producono sensazioni e vengono accolti pienamente nella coscienza indipendentemente dal giudizio razionale o dal suo contrario. Lo sviluppo della funzione cognitiva è una prerogativa della psiche materna che riconosce nel figlio l’insufficienza biologica del corpo umano che “si rivela da un’assenza totale di autonomia all’atto della nascita, quasi si trattasse di un parto prematuro con conseguente ritardo dello sviluppo, dove l’autonomia è raggiunta per acquisizione e apprendimento e non come risposta di una disposizione istintuale alla sollecitudine dell’ambiente” Il processo di autonomia cognitiva evolve dal momento in cui i “progenitori” acquisiscono padronanza della “natura sensoriale” indicando un nome per tutte le creature viventi; se si diventa abili a nominare le sensazioni recepite dal corpo, associandole alle immagini che le hanno provocate, diventa possibile procedere allo stesso modo verso forme più sofisticate di riconoscimento delle relazioni simboliche che il corpo instaura con le immagini archetipali che emergono dall’inconscio, negli stati di sogno o di meditazione (Adamo dormiente). Michelangelo descrive l’origine dei processi cognitivi come un naturale processo di esplorazione del mondo inconscio che ha origine dalla curiosità e dalla necessità di dare significato, valore e intenzione alle sensazioni, alle emozioni e ai sentimenti, anche a costo di disobbedire alle leggi, alla razionalità conforme agli scopi sociali, agli ordini provenienti dalla ragione (Dio Padre) che solitamente inibisce ogni forma di intuizione che emerge dalla percezione dell’anima. Michelangelo intuisce che Eva, la funzione cognitiva primaria esercitata dall’anima sul “corpo pulsionale” (Adamo) obbligato ad obbedire al “Dio dei limiti” per non cadere vittima egli stesso dei suoi stessi istinti, emerge dalla “costola” in quanto consapevolezza del respiro in cui sono celate le forze misteriose delle emozioni che, attivate dal flusso di energia psichica nelle ghiandole endocrine, si traducono spesso in lacrime, preghiere, suppliche, ma anche in desiderio di godere del corpo, del cibo e della vita nei suoi aspetti materiali, carnali e sensoriali. Con Eva ha origine quella prima forma di autosufficienza emotiva che ci rende relativamente liberi nel decidere di godere dei sensi e dei piaceri della vita, di acquisire il diritto di essere noi stessi e virtualmente dotati di autonomia espressiva e autoderminazione (Venere vestita). Se si evolve nell’intelligenza cinestetica che origina dalle emozioni corporee diventa possibile sperimentare il fenomeno di “far parlare” l’anima, di pronunciare le parole del “cuore”, senza alcuna forma di riflessione premeditata.”
tratto da: “http://martabreuning2.wordpress.com/
Albedo come sollievo.
“Nonostante la perplessità intellettuale che provoca, sovente l’imbiancamento è vissuto dapprima come un’esperienza di sollievo emotivo, un pò di luce e di leggerezza dopo il nero e la plumbea disperazione. La sensazione che esse in realtà non esauriscono tutto l’orizzonte; in mezzo all’infelicità, il palpitare di un uccellino. Lo stress si stempera; la corrente ida di Kundalini irrora con un velo di rugiada l’anima esaurita e amareggiata. Una dolcezza dell’umore, la discesa della grazia. Il simbolismo tradizionale parla del bianco come del colore del perdono che compare dopo il nero penitenziale. Diciamo “La cappa si è sollevata”, non è più così pesante opprimente, “Ho l’impressione che ce la farò”. Nasce un persistente senso di fiducia nelle cose che accadono. Per Dante il bianco era il colore della fede. Una fede tuttavia che non è adamantina come un credo, o un’ancora di ferro, ma assomiglia piuttosto alla gradita anticipazione di una seconda possibilità, di un secondo avvento; l’impressione che possiamo andare avanti perchè a un certo punto c’è un appiglio.”
tratto da:”Psicologia Alchemica”, James Hillman, ed. Adelphi, 2013
Gabriele D’Annunzio – Poeta, guerriero, amante 1
La “Pioggia nel pineto” è una lirica composta fra luglio e agosto 1902 dal poeta Gabriele D’Annunzio nella celebre Villa La Versiliana dove abitava immerso nel verde della pineta della Villa a Marina di Pietrasanta in Toscana.
Quest’opera appartiene all’Alcyone, una raccolta di poesie del D’Annunzio scritte tra il 1902 e il 1912.
La poesia è composta da 128 versi divisi in quattro strofe di 32 versi ciascuna.
I versi sono totalmente liberi, ossia non rispettano un preordinato numero di sillabe, tuttavia è stato notato che ricorrono spesso i ritmi ternario (tre sillabe), il senario (sei sillabe) e il novenario (nove sillabe). I versi sono anche sciolti, perché non seguono uno schema metrico fisso di rime, anche se esse sono presenti, nelle loro diverse tipologie. Il poeta dà un’immagine raffinatissima e suggestiva di un’atmosfera naturale espressa con una struttura frammentaria dei versi e con la ripetizione di parole e di frasi e dal susseguirsi di sensazioni uditive, visive, olfattive, tattili, ritmate dal ripetersi di due verbi chiave, “piove” e “ascolta”, in cui però le sensazioni uditive prevalgono sulle altre. La poesia, infatti, è una sinfonia musicale perché il poeta sceglie le parole non tanto per il loro significato quanto per il loro suono (caratteristica tipica del decadentismo e di D’Annunzio in particolare), per creare la suggestione di una musica. Le strategie tecniche che utilizza per creare musicalità e suggestione sono varie e diversificate e il linguaggio risulta molto ricercato e raffinato. Il Taci iniziale della poesia è un invito a creare l’atmosfera di silenzio e di ascolto e, attraverso questa onomatopea, le cose, viste o toccate sono ricondotte essenzialmente al loro suono. Il poeta si trova a Marina di Pisa con Ermione, la sua donna amata e, mentre passeggiano in una deserta pineta vicino al mare, li sorprende un fresco temporale estivo.
Le gocce, cadendo leggere sui rami e sulle foglie, creano una musica magica e orchestrale, destando odori e vita segreta nel bosco. I due amanti si inoltrano sempre più nel fitto della vegetazione e, così circondati, coinvolti e immersi da una sinfonia di suoni, profumi e sensazioni sprigionati dalla pioggia, si sentono parte viva della natura che li circonda, fino ad immedesimarsi con essa stessa e a trasformarsi in creature vegetali.
Questa trasformazione inizia nella seconda strofa, ai versi 52-61, dove il poeta paragona il volto di Ermione a una foglia e i suoi capelli a una ginestra e si compie nell’ultima strofa, a partire dal verso 97, dove D’Annunzio definisce Ermione non bianca ma quasi fatta virente, cioè verde, come una pianta, e ne paragona i vari elementi del corpo ad altrettanti elementi naturali: il cuore alla pesca, gli occhi alle polle (pozzanghere) d’acqua, i denti alle mandorle.
Questa meravigliosa trasformazione, questa immersione totale del poeta e di Ermione nel paesaggio naturale che li circonda è la “favola bella”. Una favola perché si tratta di un’illusione momentanea, ma bella perché questo senso di comunione perfetta con la natura è fonte di serenità e di gioia.Grande premessa di questa poesia è l’estate che col desiderio di pioggia arriva, immateriale e leggera, fino all’anima, realizzando in un momento di gioco e di magico incantesimo i sogni e le illusioni dei due amanti. Il tema dominante della sua poesia è la ricerca della bellezza e la possibilità di esprimere e far parlare il mondo delle sensazioni, delle emozioni e dei sentimenti, il rifiuto della razionalità, l’abbandono all’istinto e all’esperienza, attraverso una completa identificazione con la natura che diventa amica, conforto, gioia e ci permette di godere delle sensazioni provate.
Il tema della metamorfosi è un riferimento di natura classicista, che non va inteso come nostalgico riferimento alla letteratura ovidiana, ma come una costruzione moderna in cui l’assottigliarsi dello spazio tra sé e natura, tra io e non-io diventa direttamente proporzionale alla sopravvivenza degli antichi dei nella favola moderna. Svolgendo il suo racconto in un contesto apparentemente bucolico, che pure non si nutre del genere pastorale, D’Annunzio sviluppa nodi tematici cari al naturalismo francese, ma anche al materialismo americano e al supernaturalismo inglese in cui lo psicologismo estetico viene sviluppato come una forma sintomatica di incarnazione dell’ambiente circostante: le persone diventano cose, e le cose, o la natura nel caso di questa poesia, viene animata attraverso la prosopopea. D’Annunzio, superando in questa poesia il peso del tecnicismo formale, della superficialità e della mancanza di profondità, presente, talvolta, nella sua produzione, esprime l’ideale decadente del “panismo”, cioè della completa fusione tra l’uomo e la natura che lo circonda. Tale definizione deriva dal greco Pan che è, sia il nome dell’antica divinità dei boschi, sia l’aggettivo greco indefinito tutto. Il problema della modernità, dunque, non è rappresentato come tema di questa poesia, ma la fantasia agreste è un prodotto del desiderio di ritrovare una connessione con la natura (connessione che viene distrutta dalle nuove tecnologie, dai mezzi di comunicazione, dall’industrializzazione e dalla urbanizzazione tipici della società fin-de-siècle europea).
La pioggia nel pineto. Lirica composta fra luglio e agosto 1902 dal poeta Gabriele D’Annunzio
La pioggia nel pineto
Taci. Su le soglie
del bosco non odo
parole che dici
umane; ma odo
parole più nuove
che parlano gocciole e foglie
lontane.
Ascolta. Piove
dalle nuvole sparse.
Piove su le tamerici
salmastre ed arse,
piove su i pini
scagliosi ed irti,
piove su i mirti
divini,
su le ginestre fulgenti
di fiori accolti,
su i ginepri folti
di coccole aulenti,
piove su i nostri volti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l’anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
t’illuse, che oggi m’illude,
Ermione.
Odi? La pioggia cade
su la solitaria
verdura
con un crepitío che dura
e varia nell’aria
secondo le fronde
più rade, men rade.
Ascolta. Risponde
al pianto il canto
delle cicale
che il pianto australe
non impaura,
nè il ciel cinerino.
E il pino
ha un suono, e il mirto
altro suono, e il ginepro
altro ancóra, stromenti
diversi
sotto innumerevoli dita.
E immersi
noi siam nello spirto
silvestre,
d’arborea vita viventi;
e il tuo volto ebro
è molle di pioggia
come una foglia,
e le tue chiome
auliscono come
le chiare ginestre,
o creatura terrestre
che hai nome
Ermione.
Ascolta, ascolta. L’accordo
delle aeree cicale
a poco a poco
più sordo
si fa sotto il pianto
che cresce;
ma un canto vi si mesce
più roco
che di laggiù sale,
dall’umida ombra remota.
Più sordo e più fioco
s’allenta, si spegne.
Sola una nota
ancor trema, si spegne,
risorge, trema, si spegne.
Non s’ode voce del mare.
Or s’ode su tutta la fronda
crosciare
l’argentea pioggia
che monda,
il croscio che varia
secondo la fronda
più folta, men folta.
Ascolta.
La figlia dell’aria
è muta; ma la figlia
del limo lontana,
la rana,
canta nell’ombra più fonda,
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su le tue ciglia,
Ermione.
Piove su le tue ciglia nere
sì che par tu pianga
ma di piacere; non bianca
ma quasi fatta virente,
par da scorza tu esca.
E tutta la vita è in noi fresca
aulente,
il cuor nel petto è come pesca
intatta,
tra le pàlpebre gli occhi
son come polle tra l’erbe,
i denti negli alvèoli
son come mandorle acerbe.
E andiam di fratta in fratta,
or congiunti or disciolti
(e il verde vigor rude
ci allaccia i mallèoli
c’intrica i ginocchi)
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su i nostri vólti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l’anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
m’illuse, che oggi t’illude,
Ermione.
Piccola pansè gialla
Basta tanto poco,
un piccolo invisibile seme
e un centimetro quadrato di terra.
Se mi incanto a guardarti
nella più piccola incantevole meraviglia
spuntata radiosa tra i ciotoli dell’asfalto
come posso dubitare,
come posso scompormi per la loro stoltezza.
Siamo Io e Te sempre,
indissolubili.
Questo basti.
L’uomo è parte della natura
tratto da: “l’uomo e il mito”, Arnoldo Mondadori editore, 1978