“Nel dibattito fra magia e religione per lungo tempo il termine magia ha connotato in modo negativo o comunque riduttivo – in opposizione a quelle religiose – pratiche e credenze di società semplici, dove non esistono praticamente, se non su un piano embrionale, delle gerarchizzazioni sociali, e quindi sono assenti anche i livelli religiosi diversificati (giacché i livelli religiosi si hanno dove esistono livelli sociali, cioè dislivelli). Pregiudizi di tipo confessionale ponevano, ad esempio, la religione cristiana come perfetto modello di riferimento, e questo portava a definire magia un insieme di credenze privo di scrittura, di testi sacri e di quella complessità e articolazione teologica, rituale e organizzativa, che caratterizza le religioni “evolute”, come appunto lo stesso cristianesimo. Evoluzionismo e scientismo hanno poi considerato magia e religione come due momenti distinti dell’evoluzione umana (Tylor, Frazer), per cui i “primitivi”, ancora fermi allo stadio preistorico, non avrebbero oltrepassato la tappa della magia non avendo partecipato al processo evolutivo che porta fino alla scienza come momento ultimo di realizzazione umana. Ma va detto che nello stesso positivismo evoluzionistico, anche la religione poteva diventare “superstizione” e quindi ostacolo al “progresso”. Tuttavia, già a partire dal funzionalismo di Malinowski religione e magia sono visti non più come tappe evolutive della storia umana o come residui e sopravvivenze di un lontano passato ma come espressioni coesistenti nelle diverse società, accomunate dal fatto di essere risposte a momenti di difficoltà, quando le forze umane non aiutate non possono da sole risolvere certi problemi. Si differenzierebbero solo per il fatto che la magia si porrebbe l’obiettivo di risolvere problemi materiali, immediati, concreti e di corto respiro, mentre la religione interverrebbe per affrontare le crisi che nascono da disagi esistenziali di tipo prevalentemente metafisico. Un’accurata analisi dei passaggi più importanti di questa polemica che oppone la magia ora alla religione ora alla scienza, si trova in E. de Martino (Magia e scienza, 1962) che riconosce come l’utilizzazione del termine magia per definire certe pratiche e certe credenze in termini dispregiativi abbia una matrice storica e vada perciò usata criticamente, non come se magia e religione costituissero due mondi autonomi, del tutto diversi e perfettamente distinguibili. Il termine magia si configura allora come una categoria elaborata da chi detiene il potere culturale e religioso per definire le espressioni connesse al sacro di chi quel potere non detiene. D’altra parte, pratiche e credenze dei popoli “primitivi” sono tradizionalmente trasmessi e condivisi da tutti i componenti del gruppo, godono di un prestigio, di una autorevolezza e di un credito sociale riconosciuti e indiscussi. Sotto quest’aspetto, presentano quindi quei caratteri simili all’ufficialità e alla istituzionalità che contraddistinguono le religioni delle società complesse, seppure con diverso grado di articolazione del sistema sacerdotale e organizzativo e con diverso grado di complessità di apparati simbolici e ideologici. In questa prospettiva, nel volume del Lilliu il sentimento religioso delle comunità preistoriche della Sardegna emerge persuasivo e stimolante soprattutto nel capitolo dedicato agli idoletti rinvenuti nell’Isola. Si tratta di 133 statuine, di varia tipologia, materia (pietra, osso, argilla) e cronologia …. Dai dati emerge che queste figurine della Sardegna preistorica sono in netta prevalenza femminili (94,7%) e che sono in gran parte di sicura destinazione funeraria o comunque legata alla sfera del sacro. Ne consegue quindi che anche in Sardegna, in sintonia con quanto avviene nell’Europa e nel Vicino Oriente, è attestato in modo inequivocabile un culto della Dea Madre, di antichissima tradizione europea ed orientale che, come è noto, affonda le sue radici fin nel Paleolitico. La Grande Madre rappresenta una divinità primordiale, genitrice e nutrice, la sola a detenere il segreto della vita e l’unica con il potere di trasmetterla, a sua discrezione, agli altri esseri umani, agli animali, alla terra, alle piante. Nelle culture preistoriche, quando forse non era ancora ben chiaro il nesso fra concepimento e nascita, la capacità di dare vita ad ogni singolo individuo e la stessa sopravvivenza del genere umano sembravano dipendere esclusivamente dalla donna che rivelava, in modo concreto, di avere in sé un’energia vitale che l’uomo sembrava non possedere. Infatti, solo la donna partoriva e generava apparentemente dal nulla, per partenogenesi, mentre il maschio, che non poteva provare in modo palese il proprio ruolo nel concepimento, pareva sterile ed era escluso da questo universo divino. La nuova vita cresceva nel grembo della donna e vedeva per la prima volta la luce ancora ricoperto del sangue della nascita. E solo la donna poteva nutrire questa nuova vita con il latte del suo seno, assumendo poi nuovamente forme di fanciulla in una continua trasformazione di sé. La Dea Madre poteva inoltre alleviare l’evento traumatico della morte ed assicurare la vita oltre la morte, in una rielaborazione ciclica della nascita come modello culturale e simbolico di rinascita. Il defunto doveva essere sepolto nel ventre della madre terra o in una grotta, e sul suo corpo veniva poi sparsa ocra rossa – il sangue della vita – per evocare la prima immagine che aveva dato di sé nel venire alla luce e di conseguenza per assicurargli quasi specularmente, mediante l’uso rituale del sangue o di un suo sostituto simbolico, la rinascita nell’aldilà. È in un quadro ideologico di vita e di morte come questo che ben si comprendono e trovano preciso significato i rituali funerari attestati nella necropoli di Cuccuru s’Arriu, del Neolitico Medio di Bonuighinu. I defunti, in tombe a fossa o in grotticella artificiale, erano deposti in posizione rannicchiata, quasi nel grembo materno, velati di ocra rossa e con accanto il corredo per il viatico e una statuina in pietra che rappresentava l’immagine rassicurante della Dea Madre, intesa come tramite fra l’uomo e la divinità, fra ciò che è mortale e ciò che rappresenta l’immortalità. Tuttavia, anche la Grande Madre, divinità strettamente legata alle comunità agricole, sarà sostituita nel tempo da figure maschili che meglio rappresentavano la funzione maschile in mutate strutture socio-economiche. In termini storici, tale mutamento può essere spiegato con l’imporsi, a partire dall’età dei metalli, di una economia più dinamica e articolata, di nuove esigenze di difesa determinate da conflittualità diffuse ove la forza virile finiva per essere determinante per la salvezza del gruppo sociale. La Grande Dea viene quindi ridimensionata nel suo ruolo e, agli albori del mito, uno dei modi per ridurre la sua autorità è stato quello di farla diventare figlia di un dio padre, moglie di un dio marito, sorella di un dio fratello, madre di un figlio dio e maschio, che appena nato diveniva più importante di lei. In Sardegna, l’insorgere di una figura divina al maschile quale partner della Dea è già attestato nel pieno fiorire del culto della Gran Madre – nella cultura di Ozieri – per la presenza di menhir e di simboli taurini/bovini raffigurati in numerose domus de janas, ceramiche, amuleti. Ma sarà soprattutto nell’Età del Rame che questa nuova società “al maschile”, irrequieta e guerriera, lascerà testimonianza del mutato sentimento religioso soprattutto nelle minacciose statue-menhir armate di pugnale che segnano luoghi sacri e ambiti funerari. Ma se le statuine femminili e le stele figurate rappresentano la religione della Grande Madre, segni di una energia primordiale che regola l’alterna vicenda della vita e della morte, certamente legati ad elementi di pura irrazionalità magica e di superstizione, nel senso sopra indicato di una risposta immediata all’insorgere di un evento negativo, sono invece da considerare gli amuleti fallici per allontanare il malocchio – proprio come nel nostro tempo! – così come quegli oggetti che avevano in sé, nella forma, nel colore o nella materia, virtù di magia difensiva. Ed ecco collane costituite da denti umani o di animali (volpe, cervo, etc.), o pendagli ricavati da zanne di cinghiale nei quali è sottesa la forza scaramantica del corno ricurvo, oppure ancora vaghi di collana in conchiglia (simbolo di fertilità), etc.”
tratto da: Prefazione di Alberto Moravetti al testo Arte e religione della Sardegna prenuragica” Lilliu Giovanni, Carlo Delfino editore, 1999
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