L’Esame è un affare di Stato dal 1948. Hanno voluto così i padri costituzionalisti, che all’articolo 33 scrissero: E` prescritto un esame di Stato per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi. La buona intenzione era di garantire, a livello nazionale, parità di trattamento e trasparenza degli esiti, ciò che, se mai è stato, da gran tempo non è più. C’è poi chi pensa che l’Esame di Stato sia un rito di passaggio, suscettibile di letture antropologiche: solo un effetto collaterale, questo, da non confondere con la finalità originaria di verifica e certificazione degli apprendimenti, che assorbe risorse enormi, economiche in senso lato, non solo finanziarie: dalla scelta delle materie e delle tracce, alla costituzione di oltre diecimila commissioni da formare, assistere, ispezionare, dalla sostituzione dei furbetti assenti alla gestione del contenzioso…
Questa mobilitazione di risorse pubbliche non è finalizzata a far vivere ai nostri giovani un’esperienza emozionale, ma a posizionare ciascun candidato con il suo trascorso scolastico in riferimento a uno standard minimo di sufficienza. Purtroppo, lo standard minimo di sufficienza è, come oggi si ama dire, liquido: al variare delle commissioni, variano i criteri della sufficienza. Inoltre, quali che siano i criteri che abbiamo adottato, al momento di applicarli si liquefanno anch’essi – per non dire che bariamo spudoratamente, che, cioè, l’attribuzione del voto ne prescinde, salvo poi usarli come motivazioni fittizie.
Il fatto è che, per esempio, moltissimi temi di italiano mostrano un uso approssimativo della lingua, una conoscenza superficiale dei contenuti, un’argomentazione fragile, l’assenza di qualsiasi capacità critica. Sono tanti, troppi per meritare il valore negativo che ognuna delle griglie in cui riassumiamo i nostri criteri attribuisce a queste caratteristiche.
Sono troppi e perciò giustamente finiscono per essere sopravvalutati: perché non ce la sentiamo né di dare così tanti voti negativi a studenti che sono pur stati ammessi all’Esame, né di costruire griglie in cui uso approssimativo della lingua, conoscenza superficiale dei contenuti, argomentazione fragile, assenza di capacità critica rappresentino lo standard minimo della sufficienza. Da professionisti della disciplina ci manca il cuore di farlo e preferiamo certificare il falso.
Poi l’Università farà corsi di recupero di italiano per insegnare a diplomati della scuola superiore a prendere appunti per fare un riassunto: l’abilità che dovrebbe ritenersi elementare dopo tredici anni di scuola. E lo stesso per le altre prove scritte e per il colloquio. È così che si costruisce il quasi 100% di candidati che superano l’esame e i relativi punteggi, gonfiati a cascata. Il Decreto 62 sul nuovo Esame di Stato introduce le griglie nazionali, che dovrebbero garantire l’uniformità delle valutazioni. Funzionerà? Di sicuro non basta la stessa ricetta con scritto “q.b.” perché i piatti che escono da cento cucine abbiano lo stesso grado di sale. Occorre che una sola sia la cucina e che ci sia uno chef.
testo di Nadia Vidale tratto da : nadiavidale.blogspot.com, SCUOLA&ALTRO, Ragionamenti, analisi, provocazioni su questioni di scuola.
Della stessa autrice: “Il tappeto e la polvere, Brevi osservazioni sull’Esame di Stato”, Cleup 2017, € 10,00. Disponibile su Amazon e ibs.it.
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