Tu ne quaesieris (scire nefas) quem mihi, quem tibi
finem di dederint, Leuconoe, nec Babylonios
temptaris numeros. Ut melius quicquid erit pati!
Seu pluris hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam,
quae nunc oppositis debilitat pumicibus mare
Tyrrhenum, sapias, vina liques et spatio brevi
spem longam reseces. Dum loquimur, fugerit invida
aetas: carpe diem, quam minimum credula postero.
Tu non chiedere (non è concesso sapere)
quale fine a me e quale fine a te
gli Dèi abbiano dato, o Leucònoe, e non
consultare i numeri babilonesi.
E’ meglio patire ciò che sarà.
Sia che Giove ci attribuirà molti altri inverni
o che questo sia l’ultimo,
inverno che fa infrangere le onde del mar tirreno
sugli scogli di pomice leggera,
tu, Leucònoe, sii saggia, versa il vino e recidi
ogni lunga speranza che oltrepassi
il breve spazio del tempo immediato.
Mentre parliamo esso, il tempo, è già fuggito.
Cogli il giorno e credi minimamente
nel futuro.
(tratta dal libro Orazio – Odi ed Epodi – Bur Editor – pagg. 98 – 99).
In questa era di grande incertezza per l’umanità, mi colpisce questa richiesta di Orazio alla donna amata, Leuconoe, nome che significa “dalla candida mente”. Il carpe diem allora assume un profondo significato di accettazione del presente mentale e spirituale, mi ricorda il Ricordo di Sè di memoria gurdjeffiana. Essere presenti ora al di degli oracoli e delle loro previsioni, pur essendo tutto scritto non ci è dato guardare oltre, ma comprendere il grande valore del qui e ora immutato, presente eterno.
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